I danni politici della svolta protezionista
Il protezionismo genera svariati effetti negativi: l’inflazione rappresenta una conseguenza inevitabile, che si accompagna spesso alla recessione. E che presenta una componente chiaramente politica, poiché evidenzia una visione improntata alla guerra fra le nazioni e a una forma di socialdarwinismo internazionale


Un danno conclamato ed evidente. È questo il solo effetto vero e duraturo del protezionismo nuovamente di moda con la politica populista, e rivendicato con una protervia assoluta dal presidente degli Stati Uniti.
Donald Trump è tornato trionfalmente – va aggiunto: anche a causa della debolezza dell’avversaria Kamala Harris – alla Casa Bianca all’insegna di quella parola d’ordine del «Make America Great Again» che si traduce nell’idea della “difesa” delle produzioni americane.
Una piattaforma economicamente abborracciata e molto semplicistica – come le teorie astruse del consigliere presidenziale per il Commercio Peter Navarro, che si era addirittura inventato un alter ego «prestigioso economista» (sempre la postverità...) –, nella quale il primato della tutela del made in Usa viene ostentato a ogni piè sospinto.
E condito dallo storytelling di un “pacchetto di mischia” di nazioni (Europa e Cina) che esporta a man bassa negli Usa ostacolandoli, per contro, nel loro export, con una bilancia dei pagamenti, quindi, “ingiustamente” spostata a loro favore. Omettendo, così, tra gli altri aspetti, il dato di fatto di una situazione nella quale la potenza (anche, come noto, per fattori di natura extraeconomica) del dollaro ha invece consentito all’America di approfittare della situazione, con un disavanzo commerciale che si è pertanto risolto anche in un vantaggio ininterrotto – la propensione al consumo come sostegno a una crescita robusta – dagli anni Settanta a oggi.
E, dunque, gli Usa sono importatori netti da ben prima della costituzione di quell’Unione europea che, nella distorta e strumentale narrazione trumpista, sarebbe nata al solo scopo di approfittarsi dei “poveri” importatori americani. A conferma di come i cosiddetti dazi “reciproci” quali risposta al Vecchio continente non siano altro che una menzogna bella e buona.
Nella dottrina economica moderna si confrontano tradizionalmente due approcci fra loro antitetici: da una parte, per l’appunto, il protezionismo (o mercantilismo) e, dall’altra, il liberismo (o liberoscambismo). E se il secondo ha, ovviamente, anche i suoi difetti, del primo va rimarcato che, nel contesto odierno, si tratta di una dottrina rovinosa e portatrice solo di guasti: basti pensare al fatto che – come ha calcolato la Cgia di Mestre – l’export italiano verso oltre Atlantico rischia di venire decurtato di 35 miliardi, con le relative disastrose implicazioni per aziende e lavoratori (come ben si sa nel Nord Est potenza esportatrice).
Il protezionismo genera in modo sistematico svariati effetti negativi e controproducenti: come indicano gli economisti, l’inflazione rappresenta una conseguenza inevitabile, che si accompagna spesso alla recessione.
E che presenta, inoltre, una componente chiaramente politica, poiché evidenzia una visione improntata alla guerra (commerciale) fra le nazioni, e a una forma di socialdarwinismo internazionale (come in quell’Ottocento in cui era molto diffuso).
In questo contesto di deglobalizzazione il protezionismo costituisce, infatti, l’espressione della concezione Maga: ipernazionalismo e rigetto della rule of law e di quell’ordinamento liberale internazionale di cui gli Usa sono stati i garanti nel secondo dopoguerra dal Piano Marshall agli Accordi di Bretton Woods.
Uno stato di fatto – e il ritorno a uno “stato di natura” – che alla debole e divisa Europa, purtroppo, continua a non essere sufficientemente chiaro.
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