Ucraina, debito, Eurobond e Mercosur: così l’Europa ha deciso di non decidere
I 90 miliardi di prestito a Kiev servono solo a rimandare le scelte e il rinvio dell’accordo con il Sudamerica dimostra che manca il coraggio di sfidare i “predatori globali”

Al netto della lettura politica, e certo non è poco, i fatti scaturiti dal vertice europeo di fine anno sono due. Uno è che l’Ue ha trovato il modo per garantire 90 miliardi di finanziamenti all’Ucraina, evitandole la bancarotta ed il tracollo subitaneo davanti all’aggressore russo, mossa nella quale i più ottimisti vedono il segnale positivo dell’utile ricorso al debito e agli eurobond sinora osteggianti da Berlino. L’altro è che i leader hanno rinviato l’intesa di libero scambio con l’America Latina, cedendo alle pressioni delle lobby agricole più conservatrici e rinunciando all’immediata entrata in vigore di un patto che avrebbe offerto sollievo commerciale a molti settori.
I soldi a Kiev rimandano il problema di come cercare di fermare Putin; l’accordo col Mercosur si farà, più presto che tardi, forse già in gennaio. Eppure, i capi di Stato e di governo dovrebbero chiedersi qual è la loro strategia di medio termine, posto che nel breve c’è solo l’indirizzo di fare ciò che si può sperando che un giorno si possa fare ciò che si deve.
Oltre a questo, si notano fatica e qualche imbarazzo di troppo. Era un summit natalizio che si sperava potesse essere storico e non lo è stato. Quando il castello a dodici stelle dovesse crollare sarà utile ricordarlo per capire dove il disastro è cominciato.
L’Europa è un consesso dove gli errori si pagano due volte, perché ogni sbaglio irrita chi confida nei poteri dell’integrazione e, simultaneamente, consolida i convincimenti sovranisti di chi vorrebbe azzerarla perché “inutile”. Il massacro in Ucraina arriva al quarto anno, un tempo più lungo del conflitto fra nazisti e sovietici nella seconda guerra mondiale. Dal 2022, Putin ha violato ogni regola, ha insultato l’Unione e i leader che considera dei lacchè (“sono dei maialini”).
Nel 2025 ha trovato una sponda d’affari in Donald Trump, uno che valuta l’Ue “debole” e “creata per fregare gli americani”. Sarebbe stato necessario dimostrare di avere gli attribuiti per difendere Kiev e i diritti su cui è fondato l’Occidente. È successo solo in parte. È un bene che ci siano i soldi per Zelensky, tuttavia l’assenza di visione coesa disegna un punto interrogativo sul futuro. E l’ambiguità italiana non semplifica il quadro.
Una maggioranza di Stati era convinta che l’uso degli asset russi congelati sarebbe stata un’arma letale contro Mosca. I legittimi dubbi giuridici alimentati dal Belgio, e cavalcati da Roma, lo hanno impedito. I Ventisette, divenuti ventiquattro per colpa dei tre Paesi neo-putiniani, non hanno voluto prendere rischi. “Una scelta di buon senso”, ha sorriso il Cremlino, usando le stesse parole della presidente Meloni. Si è optato per il compromesso. Ursula Von der Leyen è stata leggera nel non consultare i belgi, titolari della cassa in cui sono depositati i denari degli oligarchi dello zar (Euroclear). Il premier tedesco Merz è scivolato nel tentativo di forzare la mano ed ha dovuto accettare il tabù degli eurobond.
I 90 miliardi per il 2026-27 che Kiev ripagherà solo se la Russia accetterà di rimborsare i danni di guerra, sono garantiti dal bilancio Ue e raccolti sul mercato, il che è importante: salvano la faccia e offrono una chance di restare in gioco. Kiev ha le risorse per non arrendersi. Tuttavia, di qui a far passare l’Unione come un attore forte sullo scacchiere internazionale ce ne passa parecchio.
Il presidente Macron, anatra parecchio zoppa, vorrebbe rilanciare il dialogo con Putin, sebbene non si capisca come l’ex agente del Kgb possa accettare un interlocutore dal pensiero strutturalmente gracile. Si navigherà a vista con l’augurio che l’America rinsavisca. La pace non si avvicina, lo tsunami di minacce russe non si arresta; l’Europa non ha uno spartito se non quello di prender tempo e sperare che i cocci vadano a posto da soli.
Se qualcuno nutrisse dei dubbi, c’è il dossier Mercosur. Salvo una fetta rumorosissima di agricoltori, l’intesa di libero scambio con i latini è ritenuta cruciale dalla maggioranza dei Paesi e delle loro imprese, perché apre mercati a dazio zero mentre gli Usa scardinano il sistema globale a colpi di dazi unilaterali. Per chi vende macchinari e farmaci, vino e pasta, è un’occasione d’oro. Giovedì sera ha trionfato la paura, la difesa dei voti assicurati dalle lobby che hanno sparso letame sulle istituzioni Ue che versano 50 miliardi l’anno per la sacrosanta tutela dell’economia verde. Tutto lascia immaginare che l’intesa si farà perché le garanzie sono solide.
Dal vertice è sortito un compromesso tattico privo di senso politico, segno di una fragilità che può costare cara a tutti gli europei, anche a coloro che rifiutano l’Unione. Xi, Putin e Trump – nuovi predatori globali – credono di poter far a loro piacimento. L’Europa dovrebbe avere il coraggio di sfidarli in nome della sua storia e dei suoi valori. Non sta succedendo. E le possibilità che tutto si metta al peggio crescono giorno dopo giorno, incertezza dopo incertezza, debolezza su debolezza.
Riproduzione riservata © il Nord Est




