Aiuti a Kiev, Europa costretta al compromesso
Se vuole sopravvivere in un mondo che si ristruttura per grandi aree geopolitiche, l’Ue non potrà mostrarsi conciliante con chi vuole che affondi

Il vertice Ue sugli aiuti a Kiev si chiude con il varo di un prestito di 90 miliardi garantito dal bilancio comunitario. Decisione legata all’opposizione da parte di alcuni Paesi membri a mettere mano agli asset russi congelati: il Belgio, che temeva pesanti richieste di risarcimenti da parte di Mosca; l’Ungheria di Orbán, la Repubblica Ceca di Babis, principali anime del “partito filorusso” nei ranghi europei, oltre che la Slovacchia di Fico. Schieramento, quello neo-visegradino, che ha potuto contare sulle perplessità di Italia, Bulgaria, Malta.
Al di là della scontata lettura su vincitori e sconfitti - a perdere è, innanzitutto, il tandem tedesco Merz-von der Leyen, che puntava sui fondi russi -, il vertice lascia, comunque, eredità destinate a pesare. Il sofferto accordo si presenta col volto di una cooperazione rafforzata che impegna solo chi vi aderisce. Ungheresi, cechi e slovacchi, hanno dato il via libera alla proposta, che richiedeva la sempre più insostenibile unanimità, in cambio della possibilità di tenersene fuori: con l’opt-out non ci sarà, per loro alcun obbligo finanziario. La “diserzione”, però, non oscura l’importante precedente: la Ue può finalmente ritenere plausibile l’uso di uno strumento come le cooperazioni rafforzate per dare forma a una politica estera e di difesa comune. Un passo sempre più necessario per far fronte alla vorticosa ristrutturazione dello scenario mondiale e alle spregiudicate strategie di Usa e Russia che nell’Europa vedono un attore da indebolire, se non da far crollare. Inoltre, il prestito è finanziato dal debito comune, cui Germania e “frugali” nordici si erano sempre opposti. Per non lasciar collassare l’Ucraina, Germania e baltici hanno dovuto stavolta abbozzare, sacrificando il rigore economico alla sicurezza. Del resto, il ritorno in scena della Russia neoimperiale minaccia, innanzitutto, il tradizionale spazio geopolitico tedesco e quello dei loro vicini est europei.
Quanto all’Italia, ha frenato sugli asset russi con un occhio rivolto ai desideri di Trump e un altro agli umori filoputiniani d’un leader di maggioranza. Tattica che segna solo apparentemente un punto a favore di Meloni che, nell’occasione, ha trovato sponda in Macron, timoroso che il governo francese non potesse reggere una discussione parlamentare sul prestito. Ciò non significa aver incrinato il consolidato rapporto tra Parigi e Berlino: semmai quanto è accaduto verrà percepito nella capitale tedesca, così come nella sede della Commissione a Bruxelles, come una sempre maggiore distanza di Roma da quel nocciolo duro dell’Europa indotto a inevitabile “fusione” dagli stessi, divisivi, esiti emersi al vertice. Una constatazione che potrebbe avere riverberi su molti piani.
Del resto, Meloni non potrà sfruttare infinitamente, e abilmente, le molteplici contraddizioni europee. Tanto più che mostra la corda il tentativo trumpiano di blandire la Russia facendole concessioni sull’Ucraina per impedire una sua più stretta alleanza con la Cina. Lo rivela non solo la chiusura di Mosca alla trattativa, ma anche l’emissione di bond russi in yuan per 3 miliardi di dollari, segno di sempre maggiore dipendenza del Cremlino dalla Città Proibita. Se vuole sopravvivere in un mondo che si ristruttura per grandi aree geopolitiche, l’Europa non potrà mostrarsi conciliante con chi vuole che affondi. —
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