L’Italia e l’utopia della questione settentrionale
A un secolo e mezzo dall’unità, rimaniamo un Paese diviso in due tronconi, entrambi incompiuti; e con un solco che anziché diminuire si accresce: la differenza del Pil pro capite tra Nord e Sud, che nel 1861 era del 10 per cento, oggi è arrivata al 45.

D’Azeglio riveduto e corretto: l’Italia non è fatta, tutt’altro. A un secolo e mezzo dall’unità, rimaniamo un Paese diviso in due tronconi, entrambi incompiuti; e con un solco che anziché diminuire si accresce: la differenza del Pil pro capite tra nord e sud, che nel 1861 era del 10 per cento, oggi è arrivata al 45.
Due spunti recenti confermano l’attualità del tema: da un lato la riedizione, nel centenario dell’uscita, del saggio di Guido Dorso sulla questione meridionale; dall’altro l’intervista del direttore di questo giornale, Paolo Possamai, al presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga sulla questione settentrionale. Una parola, questione, che la dice lunga: viene dal latino quaerere, che significa cercare. 164 anni dopo la nascita dell’Italia unita, siamo ancora alla ricerca di una soluzione. E continuiamo a non trovarla.
Di questione meridionale ha parlato per la prima volta nel 1873 Antonio Billia, deputato radicale, denunciando la disastrosa situazione sociale ed economica del Mezzogiorno e il suo ritardo rispetto al Settentrione. Da allora, lo Stato ha destinato al Sud quote importanti di spesa pubblica: oltre 82 mila miliardi di lire dalla sola Cassa del Mezzogiorno da quando è stata istituita (1951) a quando è stata chiusa (1991). Eppure, sempre meno dei soldi destinati al Nord: Eurispes ha certificato che dal 2000 al 2017 il Meridione ha ricevuto 840 miliardi di euro in meno rispetto a quanto avrebbe dovuto ottenere in rapporto alla popolazione. Rimangono inoltre antichi mali interni, già certificati dall’analisi di Dorso e tuttora presenti: a partire dai limiti di una classe dirigente inadeguata.
Anche la questione settentrionale ha radici remote, che affondano subito dopo l’unità d’Italia, soprattutto da sponda lombarda. A porla in termini concreti e in chiave nazionale è stato negli anni Cinquanta del Novecento Adriano Olivetti, uno dei rari imprenditori con capacità di guardare al futuro: il suo disegno mirava a trasformare il divario Nord–Sud non solo con investimenti produttivi, ma con una riforma culturale e istituzionale della società italiana. È rimasto lettera morta; e inutile si è rivelato anche il rilancio tentato nei primi anni Novanta dalla Fondazione Agnelli.
Sono molte le ragioni di queste due grandi incompiute; ma tra quelle che più hanno inciso figura il Dna ferocemente centralista dei partiti da destra a sinistra, che mette radici nel loro assetto interno.
Va riconosciuto alla Lega di Bossi il merito di aver imposto nell’agenda pubblica il tema del federalismo, costringendo un po’ tutti a farlo proprio, ma soltanto a parole: “Il federalismo è diventato la carta igienica del riformismo all’italiana”, ha denunciato il giornalista Giorgio Lago, paladino esemplare di una battaglia perduta. Anche il tentativo di queste settimane di una parte della Lega di riproporre per il partito il modello bavarese Cdu-Csu è aria fritta, vista l’autocrazia imposta da Capitan Salvini. D’altra parte, non è affatto una novità: ne aveva già parlato a inizio anni Ottanta Toni Bisaglia per la sua Dc veneta, consapevole peraltro che era pura utopia. E poco dopo Iginio Ariemma, all’epoca segretario del Pci veneto, aveva inutilmente prospettato la questione ai vertici nazionali del suo partito, asserragliati a Botteghe non a caso Oscure.
Così ancor oggi il Paese rimane inchiodato alla sconsolata constatazione della seconda strofa dell’inno di Mameli, che nessuno canta e tanto meno conosce: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi / perché non siam popolo, perché siam divisi”. Fino a quando? —
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