Mercosur, l’accordo Ue rischia il binario morto: frenano Italia, Francia, Austria e Polonia
La firma del 20 dicembre ora è in forse. Le lobby agricole bloccano la clausola di salvaguardia e dividono i governi europei, mentre industria e Commissione spingono per un’intesa che aprirebbe a 284 milioni di consumatori e a risparmi da 4 miliardi l’anno

Il voto degli eurodeputati sulle clausole di salvaguardia è slittato, i ventisette governi dell’Unione sono divisi e un po’ confusi. A un anno dalla conclusione dei negoziati, e a un quarto di secolo dai primi colloqui, l’accordo di libero scambio fra l’Ue e i paesi latinoamericani del Mercosur avanza fra i litigi su una traiettoria che rischia di diventare un binario morto. La cerimonia di firma annunciata per il 20 dicembre è in forse.
La pressione delle lobby agricole più conservatrici ha convinto Austria, Francia, Italia e Polonia a dare un colpo di freno al processo concepito per liberare dai dazi gli scambi commerciali fra il Vecchio Mondo e la parte meridionale del Nuovo - Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia. Le opportunità legate un mercato che nel 2024 ha comprato quasi 100 miliardi in valore di beni e servizi europei sono appese a un filo.
“L’Europa non può permettersi di esitare”, avverte Business Europe - l’organizzazione che riunisce le associazioni industriali continentali -, convinta che “la diversificazione mitighi i rischi geopolitici”. Dopo la tempesta scatenata da Donald Trump in nome di un neo regionalismo che rimpiazzi il multilateralismo degli ultimi tre decenni, l’economia europea deve vedersela con quella che la Commissione Ue definisce “una serie di choc senza precedenti”. Si sta ridefinendo l’assetto delle relazioni commerciali e, nota Banca d’Italia, l’incertezza sugli scambi “pesa ancora sulle prospettive a medio termine: le previsioni indicano che nel biennio 2025-2026 la crescita globale sarà inferiore a quella dello scorso anno”.
E allora? Gli analisti concordano che la reazione deve avvenire su tre terreni: dialogo e mediazione con gli Usa; ottimizzazione del potenziale interno attraverso riforme e riduzione dei carichi amministrativi; apertura di mercati per l’export e consolidamento degli esistenti.
L’accordo con il Mercosur risponde a questa terza esigenza. Il patto mira ad azzerare i dazi imposti su oltre il 91% dei beni “made in Europe”, con l’eliminazione progressiva di picchi tariffari che raggiungono il 35%. Nella sua cornice ci sono 284 milioni di consumatori sudamericani che attualmente pagano un pegno del 27 per cento sul vino e del 18 per cento su pasta e biscotti. Bruxelles stima che le imprese europee potranno risparmiare 4 miliardi l’anno e avere accesso semplificato agli appalti pubblici e ai servizi. Saranno facilitati il commercio di servizi digitali, le Tlc, la finanza, ma anche l’acquisto delle terre rare, i minerali necessari per l’industria hi-tech di cui abbiamo disperatamente bisogno e di cui i paesi latini sono ricchi.
La Commissione Ue e una parte rilevante delle cancellerie europee credono che l’intesa Mercosur sia un “salva-crisi”.
In realtà, tutto si blocca sull’agricoltura e sulla procedura di urgenza avviata a Bruxelles per approvare una clausola di salvaguardia (“il patto viene sospeso se l’export latino cresce più del 10 per cento o se i prezzi calano repentinamente della stessa misura”), uno stop invocato dalle lobby agricole che, in numerosi Paesi, contano quanto il ministro dell’Agricoltura. “Abbiamo impedito il colpo di mano”, esulta Coldiretti. Il risultato è che il dossier si è fermato. E che molti sono insoddisfatti.
Da noi, e non soltanto, il settore dei macchinari, la chimica e il farmaceutico sorridono all’idea di poter vendere di più in Argentina e Brasile. Un analista del settore alimentare riassume che il grosso del settore vinicolo vede nel calo dei dazi la possibilità di esportare più bottiglie, in linea con i pastai e il comparto carni/salumi (ma non la pollicoltura, non sempre efficiente e preoccupata dalla concorrenza). Favorevoli pure le acque minerali, interessate a una piazza in cui il ceto medio si sta allargando e chiede qualità.
Dovrebbe bastare, ma la Francia di Macron, la Polonia in crisi di identità politica e il governo italiano, tentennante fra la fedeltà alle lobby e la pressione dell’industria, non ci vogliono stare. Non ancora.
Il presidente brasiliano Lula vuole chiudere il 20 dicembre e Ursula von der Leyen, che come presidente della Commissione ha la titolarità delle trattative commerciali, è pronta a partire. Per questo, ottenuto il via libera in Consiglio, l’Europarlamento aveva accelerato la procedura per la clausola di garanzia, sinché è prevalsa la paura e l’attenzione ai collegi elettorali. I popolari, la famiglia più numerosa dell’assemblea comunitaria, hanno bloccato l’iter. È possibile venga ripreso nei prossimi giorni, ma non è detto. La Polonia giura che voterà comunque contro.
Così si finirà al vertice dei capi di Stato e di governo del 17-18 dicembre, il massimo centro del potere politico europeo. La partita ancora aperta, per quanto ingarbugliata. Si gioca fra la paura della competizione e le opportunità dell’apertura, fra chi difende quello che c’è come se andasse bene e chi vuol fare un salto nel Nuovo Mondo, fra chi teme di perdere i voti e chi spinge per salvare imprese e posti di lavoro. A Bruxelles si tratta. C’è chi dice che il futuro non deve arrivare. E chi è consapevole che arriverà soltanto nel futuro.
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