Dai Paesi Bassi alla Francia, la chimera del governo ideale

Non si trovano più modelli da imitare tra gli Stati europei: a dispetto della sua storia, è proprio il governo italiano ad apparire il più solido

Fabio BordignonFabio Bordignon
Rob Jetten, probabile futuro primo ministro in Olanda
Rob Jetten, probabile futuro primo ministro in Olanda

Non si trovano più modelli da imitare. Forse non sono mai esistiti, quando si parla di assetti istituzionali e forme di governo. Ma la confusione che investe ormai un po’ tutte le democrazie sconsiglia, a maggior ragione, la ricerca di ricette universali.

Basti guardare alla Francia, le cui istituzioni – quelle della V Repubblica – sono state a lungo sinonimo di governabilità: la terra promessa dell’ingegneria costituzionale. Certo, il dispositivo del doppio turno consente ancora al Presidente francese, eletto dai cittadini, di trasformare piccole maggioranze in ampi poteri.

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Anche il “monarca repubblicano” di Parigi fatica però, sempre più, a decidere. Alle prese con un parlamento frammentato che ha già costretto Macron, dal suo (primo) arrivo all’Eliseo, a dare vita a nove governi con sette diversi primi ministri.

Al punto da indurre alcuni osservatori francesi, alla ricerca di soluzioni, a volgere lo sguardo persino al di qua delle Alpi: all’Italia, che ha guardato a lungo al sistema francese con un pizzico di invidia: come soluzione alla fragilità del proprio sistema politico; e possibile approdo per l’eterna transizione apertasi all’inizio degli anni Novanta.

Oggi, però, è proprio il governo italiano ad apparire solido. Al punto da spingere Giorgia Meloni a mettere in stand-by la madre di tutte le riforme: quella che introdurrebbe l’elezione diretta del capo del governo. Per dare la precedenza ad altri interventi sulla Costituzione, in particolare quello sulla giustizia. Ma anche perché, in un certo senso, il premierato “c’è già”, almeno in questa legislatura.

Lo spettro dell’instabilità aleggia invece ancora sui Paesi Bassi, che questa settimana hanno votato per la terza volta in quattro anni e mezzo. I risultati hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a molti osservatori, vista la flessione subita dal Pvv, formazione di destra radicale di Geert Wilders, che aveva innescato la crisi.

E l’avanzata dei partiti pro-Europa. Ma il quadro di estrema frammentazione, “fotografato” da un sistema elettorale iper-proporzionale, potrebbe mettere (nuovamente) a dura prova la tradizione consensuale della democrazia olandese.

Dove il governo si decide dopo le elezioni. In un percorso che presuppone un orientamento al negoziato e disponibilità al compromesso da parte delle forze politiche. Già nel 2023 c’erano voluti più di 200 giorni per dare vita all’esecutivo di centro-destra.

A vincere le elezioni – ammesso che abbia senso parlare di vittoria, in questo sistema – è stata la formazione D66, con appena il 17% del consenso. Il suo leader, Rob Jetten, durante la campagna elettorale ha dichiarato che se Wilders, vincitore (anch’egli parziale) delle precedenti elezioni, avesse potuto guidare lui stesso il governo, al posto di un funzionario non eletto, «avrebbe dovuto affrontare personalmente le conseguenze dell’enorme caos che ha creato».

E gli elettori avrebbero potuto giudicarlo. Per questo si è detto favorevole all’elezione diretta del capo del governo, peraltro vecchia bandiera del suo partito.

Insomma, il capo di D66 (e ipotetico primo ministro) non esclude un premierato all’olandese: un governo all’italiana, che, per ora, non esiste neppure in Italia.

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