Dal liberum veto all’unanimità europea: così l’Europa rischia la paralisi

Meloni e Orban difendono la regola del veto, ma fu proprio quel principio a condannare la Polonia del Settecento alla dissoluzione. Per l’Ue, il passato può diventare un pericolo attuale

Vincenzo MilanesiVincenzo Milanesi

«Non sono favorevole ad allargare il voto a maggioranza, in luogo dell’unanimità, all’interno delle istituzioni europee». Così parlò Giorgia Meloni, in un suo recentissimo intervento al Parlamento italiano. Non è l’unica a pensarla così in Europa: contrarissimo ad abbandonare la regola dell’unanimità è, ad esempio, Viktor Orbań.

E non è un caso: perché quella regola è ciò che sta più a cuore al sovranismo, cioè alla teoria che riafferma come insuperabile il possesso pieno della sovranità per gli Stati nazionali all’interno delle istituzioni comunitarie. Per uno Stato nazionale la sovranità è essere un’entità politica superiorem non recognoscens.

Cioè poter affermare il proprio potere assoluto, ab-solutus, cioè sciolto da qualsiasi vincolo di condivisione con altri Stati, quando ci sono decisioni da prendere insieme: insomma è un diritto di veto. E infatti la nostra premier ha continuato nel suo discorso affermando che «su molti temi le posizioni della maggioranza (degli altri Stati) potrebbero essere abbastanza distanti dalle nostre e da quelle dei nostri interessi nazionali, e la mia priorità rimane difendere gli interessi nazionali italiani». Più chiaro di così...

Ecco quindi che ci vuole un diritto di veto per quando uno Stato ritiene che una decisione a maggioranza nuoccia ai suoi propri interessi. È il trionfo del “particulare”, usando il termine con una qualche disinvoltura, senza scomodare Francesco Guicciardini. In questo modo la paralisi delle istituzioni europee è garantita. Con sommo gaudio dei sovranisti. Che ne approfittano spesso, salvo poi accusare le istituzioni europee medesime di non essere in grado di decidere. Come in effetti spesso accade.

Intendiamoci bene. Tutti gli Stati hanno interessi “particulari” che vengono a galla in molte situazioni, ed è comprensibile che ciò accada. Quegli specifici interessi andrebbero però sempre difesi attraverso processi di mediazione con gli altri Paesi che in altre occasioni avranno altri interessi altrettanto specifici da difendere, in modo da giungere a una soddisfacente composizione degli interessi “particulari” di ciascuno per mezzo di ragionevoli compromessi.

Di cui si dovranno far carico proprio le istituzioni comunitarie. Superando la logica dei veti. Ma a maggior ragione l’Unione europea dovrebbe essere in grado di funzionare come una confederazione, se non di una vera e propria federazione, almeno per le decisioni che riguardano non gli interessi “particulari”, ma quelli che riguardano tutti, come nel caso della politica estera e di difesa. Siamo tremendamente lontani da ciò. Ed è qui il motivo per cui l’Europa è un nano politico a livello globale, che dipende dagli umori (e dagli interessi) altrui per la difesa dei propri interessi comuni ma in fin dei conti anche della propria libertà.

Oggi che l’Unione non è più solo quella dei sei Paesi fondatori di ottant’anni fa, e che vuole ulteriormente allargarsi ad altri Stati, deve superare il liberum veto. Che era un diritto di ogni membro della Dieta Polacca, cioè del Parlamento della Polonia del Settecento. E che paralizzò la sua capacità decisionale fino a provocare la dissoluzione dello Stato polacco, il più vasto Stato in Europa allora. Finì spartito tra le potenze europee vicine, Russia, Austria e Prussia, dalla fine del Settecento al 1918.

La Storia davvero non insegna nulla a noi scolari sciocchi. Ci salveranno le cosiddette «cooperazioni rafforzate» tra volonterosi, come suggerisce Mario Draghi per bypassare il liberum veto?

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