Il recinto che intrappola il Pd di Elly Schlein

I due giorni passati dalla segretaria a decidere se “salvare” il sindaco di Milano Sala sono una dimostrazione di impotenza: la storia non si cancella con un colpo di spugna

Carlo BertiniCarlo Bertini
Elly Schlein, segretaria del Pd (Ansa)
Elly Schlein, segretaria del Pd (Ansa)

Il problema di Elly Schlein è che la storia non si cancella con un colpo di spugna. Le fondamenta del suo partito sono altre da quelle che vorrebbe lei. Per una segretaria nata e cresciuta sotto l’ombra delle sardine, dell’occupy Pd, del green e dell’Lgbtq è bello, non è semplice provare a cambiare fin dall’ossatura un partito che da sempre vuole fare più che protestare.

Il fenomeno Sala si sviluppa con questo preciso imprinting. Tanto per rinfrescare la memoria, nel 2007 governava Romano Prodi e il Pd di Walter Veltroni (con Dario Franceschini vicesegretario) appena nato già vantava una dote di decine di sindaci, assessori, amministratori e una ventina di ministri. Tra cui Paolo Gentiloni, Enrico Letta, Pierluigi Bersani, Giuliano Amato.

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Carlo BertiniCarlo Bertini
Nella foto Elly Schlein, sullo sfondo un’immagine della Meloni

Quel partito nasce sull’onda di una speranza di cambiamento, avendo gli strumenti reali per incidere sulla carne viva del Paese, come li ha un partito di governo. Che tale è rimasto anche a costo di ingoiare forzate coalizioni bipartisan e di pagare prezzi alti per i compromessi su lavoro, economia, ambiente, che è stato costretto a fare nei suoi primi 15 anni di vita.

E poi, dopo l’era Bersani-Renzi e quella Zingaretti-Letta, ecco spuntare dal nulla la giovane outsider, capace con la sua freschezza giovanile di ricreare una «connessione sentimentale» col popolo di sinistra. Ma ormai rinchiusa in un recinto con i pochi fedeli al suo fianco, impotente di fronte alla sfida di scardinare le incrostazioni di potere, cambiare una struttura con muri portanti così alti.

Lei e il popolo di sinistra sono più in sintonia, ma in mezzo c’è il deep state democratico, penetrato nei gangli del sistema Paese: corpaccione difficilmente eludibile, come un elefante in una stanza, per dirla con Bersani. E in grado di inibirle qualsiasi movimento: come dimostra la vicenda campana, Elly deve accettare il do ut des del cacicco De Luca, o la Puglia, dove Emiliano e Vendola ancora spadroneggiano; o la rossa Toscana, dove il governatore Giani ha schierato tutta la “ditta”, comprese Cgil e Cisl, per essere ricandidato; per finire con la Capitale, dove le opere piccole e grandi sbandierate dal sindaco Gualtieri sui social sono prodromiche a una sua riconferma.

Dunque, i due-giorni-due passati da Schlein a decidere se “salvare” il sindaco di Milano Beppe Sala con una carezza – velenosa perché condizionata a un «cambio di passo» – sono una dimostrazione di impotenza di chi vorrebbe disconoscere parenti che le stanno idealmente stretti: ma che ancora costituiscono l’anima di un partito e del suo potere realizzato.

Come tutti gli eurodeputati (da Antonio Decaro, che vincerà in Puglia, a Dario Nardella, da Matteo Ricci, che può strappare le Marche a Giorgia Meloni, a Nicola Zingaretti). Tutti trasmigrati a Bruxelles grazie a sistemi di potere consolidati, forieri di migliaia di preferenze, portate in dote al Pd oltre che a se stessi. Scudieri di una forza politica che trova linfa nelle falde dell’imprenditoria italiana, senza colori politici, più che in quelle degli scioperi dei lavoratori; nei flussi di individualismo e in ogni tipo di ambizione, di governo, nazionale, regionale, locale.

Con radici ben piantate nella cultura del fare, di cui la “Milano da costruire” è un emblema. Ecco cosa è sul terreno il Pd governato da Elly Schlein. Oggi alle prese con il periodico ritorno della questione moral-giudiziaria, strattonata da Giuseppe Conte, ma frastornata e non in grado, per cultura e convinzione, di esprimere una linea che rappresenti il vero Pd.

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