Usa e Cina rivali sulle fonti energetiche: l’Ue sceglie una pericolosa neutralità

Trump rinnega gli accordi ambientali e si schiera per lo sfruttamento intensivo delle fossili. Xi invece punta tutto sulle rinnovabili. Bruxelles indecisa rischia il ritardo su entrambi i fronti

Paolo CostaPaolo Costa
Container e ciminiere al porto di Rotterdam (foto Agf)
Container e ciminiere al porto di Rotterdam (foto Agf)

Tutti in attesa che Trump, novello Minosse, esamini «orribilmente ringhiando» le colpe della Ue e la mandi «secondo che avvinghia» nel girone infernale dei dazi che si merita. Una concentrazione di attenzione che distrae dal più ampio contesto di destabilizzazione trumpiana dell’ordine mondiale e da altri provvedimenti Usa destinati a incidere come o più dei dazi sul futuro del mondo. E della Ue che pare non rendersene pienamente conto per reagire di conseguenza.

È ormai del tutto evidente che la politica trumpiana sta cercando di cancellare di fatto e di diritto l’ordine internazionale discendente dagli accordi di Bretton Woods dei tardi anni ’40. I dazi sono uno degli strumenti che mettono in crisi le norme che hanno costituito il perimetro “costituzionale” dei Gatt (General Agreements on Trade and Tariffs / Accordi generali sul commerciò e i dazi) all’interno dei quali Stati e imprese hanno condotto il commercio internazionale negli ultimi 70 anni. Ma sono anche solo uno degli strumenti con i quali si va affermando nella logica trumpiana la nuova supremazia dello Stato sul Mercato. La stessa supremazia invocata da anni, non sempre a proposito, da tutti i nemici della globalizzazione.

Ma in fondo più recentemente anche da tutti coloro che, anche in Italia e in Europa, chiedono il ritorno a una politica industriale; e non più per imbrigliare con norme e incentivi/disincentivi le scelte del Mercato, ma per riportare alla responsabilità collettiva dello Stato scelte allocative di orientamento strategico dell’economia. Una politica industriale che - in tempi di transizioni profonde - ha soprattutto il compito di fornire obiettivi dichiarati, netti, sistemici e di lungo periodo, che, se condivisi e mantenuti fermi, riducono i rischi per tutti gli operatori pubblici e privati interessati e rendono sinergiche le loro scelte attuative.

Va in questa direzione il provvedimento adottato dall’amministrazione guidata da Donald Trump con le norme di politica energetica contenute nell’One Big Beautiful Bill Act, approvato il 3 luglio scorso. Scelta drammatica e discutibile e che, in più, rende evidente l’impasse nella quale rischia di cacciarsi l’Unione europea. Le norme sulla politica energetica di Trump cancellano tutti gli obiettivi e vincoli climatici introdotti negli Usa per assecondare la politica globale di lotta ai cambiamenti climatici disegnata con gli accordi di Parigi del 2015. Le nuove norme Usa prevedono una massiccia espansione dell’estrazione di combustibili fossili (persino nell’Arctic National Wildlife Refuge in Alaska), l’eliminazione sistematica dei programmi per l’energia pulita e l’annullamento delle regolamentazioni di protezione ambientale.

Gli Usa puntano a fondare la propria competitività globale sull’impiego di tecnologie che tornano a sfruttare l’efficienza nella produzione e nell’impiego di fonti energetiche fossili. Una direzione di politica energetica diametralmente opposta a quella della Ue che, con il suo contemporaneo - lo stesso 3 luglio 2025 - Framework for Achieving Climate Neutrality (Quadro di riferimento per raggiungere la neutralità climatica), si propone invece di accelerare la decarbonizzazione, con l’obiettivo-bandiera della riduzione del 90% delle emissioni climalteranti entro il 2040.

Il paradosso è che sugli obiettivi climatici l’Ue si trova oggi a fianco la Cina che da almeno due decenni, pur continuando a bruciare carbone, petrolio e gas, ha avviato una politica accelerata di sviluppo delle fonti rinnovabili con le quali ormai copre il 39% della sua generazione elettrica, più del doppio rispetto al 2008. I risultati cinesi sono sotto gli occhi di tutti: pale eoliche, pannelli solari, batterie, semiconduttori, chip e trattamento delle terre rare sono tutti mercati mondiali oggi dominati dalle innovazioni tecnologiche cinesi. La Cina ha costruito la sua fortuna industriale sull'anticipato impegno nelle rinnovabili.

Ci troviamo così di fronte a un mondo nel quale gli Usa alzano la bandiera delle fonti energetiche fossili e la Cina quella delle fonti rinnovabili. Un mondo nel quale l’Europa invece non ha ancora saputo prendere una posizione netta. Tra fonti fossili e fonti rinnovabili, l’Ue ha scelto la cosiddetta «neutralità tecnologica». Scelta che sa molto di politica antica, quella che dava la preminenza al Mercato sullo Stato, e che viene meno al suo compito moderno -prioritario in tempi di transizioni tecnologiche accelerate come quelli che stiamo vivendo - di indicare obiettivi scenari-comuni di politica industriale agli attori pubblici e privati.

L’Ue punta su soluzioni di decarbonizzazione totale, «ma anche» su quelle a bassa impronta di carbonio, senza indicazioni di priorità. Con il suo Clean Industrial Deal (Accordo sull’industria pulita) l’Ue si rende conto di dover coniugare «decarbonizzazione e competitività industriale». Ma, se in Cina tutti lavorano per le rinnovabili e negli Stati Uniti tutti lavorano per le fossili, l’Europa - continuando a tentennare tra le une e le altre - rischia di perdere competitività su entrambi i fronti. Mancando di scelte strategiche coraggiose, rischiamo di proteggere l’industria morente, quella figlia delle fonti fossili, anziché quella nascente.

La «neutralità tecnologica» potrebbe dunque rivelarsi una trappola: la peggiore delle strategie possibili che mette l’Ue in difficoltà sia con le fossili, lasciate alla leadership di Trump, sia con le rinnovabili, lasciate a quella di Xi Jinping. Cercasi politica per la competitività globale dell’Ue. 

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