Dazi e debito, non solo commercio: cosa c’è davvero dietro la politica tariffaria Usa
Crescono importazioni e gettito, ma i dazi sono una tassa sui consumi. Washington punta alla reindustrializzazione e a sostenere il debito: per l’Europa è tempo di trattare


Nonostante le barriere tariffarie erette a difesa del mercato americano, nel primo semestre del 2025 le importazioni negli Stati Uniti sono cresciute del 15% rispetto l’anno scorso. Certo, dietro questo dato si intravede la strategia di anticipazione degli acquisti da parte di imprese e consumatori americani, che hanno così cercato di limitare l’impatto dei dazi sulla loro spesa.
Se la bilancia commerciale Usa continua a peggiorare, dall’altro lato è però aumentato il gettito fiscale dei dazi, che Donald Trump rivendica come successo della sua politica. Tuttavia, com’è facile intuire, la doppia crescita di dazi e importazioni non durerà a lungo: più alte sono le barriere tariffarie, più costose saranno le importazioni, il che ne deprime la domanda.
Ma chi sta pagando il gettito delle tariffe? L’inflazione negli Stati Uniti è cresciuta al 3%, un punto in più rispetto l’anno precedente, eppure un livello ancora contenuto. Questo farebbe pensare che i consumatori americani siano al momento al riparo dai rincari dei dazi. In realtà, un’analisi più attenta mostra come i prezzi dei beni importati stiano aumentando negli Stati Uniti a tassi ben maggiori di quelli interni (4% contro 1%), confermando che i dazi sono, alla fine, una tassa sui consumi. Tuttavia, la questione più importante da porci è un’altra: quali reali obiettivi intende raggiungere il governo Usa attraverso una politica tariffaria che per estensione e intensità non ha eguali nell’ultimo secolo?
Dietro l’ostinazione con cui il presidente degli Stati Uniti procede sulla sua strada, si intuiscono due obiettivi che anche a noi europei converrebbe non sottovalutare. Il primo riguarda la sostenibilità del debito pubblico Usa, che da solo vale oramai più di un terzo del Pil mondiale e il cui costo per interessi sul bilancio federale si sta pericolosamente avvicinando a mille miliardi di dollari l’anno. Per limitare questo costo la Casa Bianca può contare sul gettito delle tariffe, che tuttavia incide sui prezzi interni, oppure deve evitare la fuga dei capitali stranieri dal debito Usa, così da mantenere bassi tassi di interesse. Una parte non trascurabile delle trattative in corso riguarda questa mina vagante nei mercati finanziari globali, da cui dipendono anche i nostri risparmi.
Il secondo obiettivo, fin da subito proclamato dal governo Usa, è la «reindustrializzazione» del territorio americano come condizione per mantenere la leadership tecnologica, ma anche per restituire prospettive di sviluppo e dignità alla classe media, senza le quali rischia di entrare in crisi non solo l’economia, ma la stessa democrazia.
Entrambi gli obiettivi non possono essere facilmente aggirati da noi europei, che se adesso accusiamo la Casa Bianca per la sua dottrina “mercantilista” – l’idea che ciò che conta è solo l’attivo della bilancia commerciale – abbiamo in realtà noi stessi praticato questa dottrina negli ultimi decenni attraverso sistematici surplus commerciali e, dall’altra parte, continui deflussi di capitali a favore di attività finanziarie oltreoceano.
Per evitare una perdurante situazione di incertezza, è forse arrivato il momento di mettere direttamente sul tavolo del negoziato tra Bruxelles e Washington il tema del ritorno della manifattura negli Stati Uniti e, allo stesso tempo, della crescita dell’industria digitale in Europa. Favorire un duplice scambio di capitali e know how tra le sponde dell’Atlantico potrebbe ridurre gli squilibri che si sono accumulati nell’economia e nella finanza internazionale, rinsaldando al contempo l’alleanza politica dell’Occidente. Non si tratta di un’operazione semplice, ma la gravità delle sfide attuali richiede maggiore onestà intellettuale e uno scatto di immaginazione politica.
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