La lezione che l’Europa non impara
Gli sbagli evidenti dei governi europei nel gestire la cosa comune stanno plasmando un nuovo elettorato pronto a tutto pur di cambiare, anche ad abbracciare il concetto Maga, la pozione presunta magica che vuole rendere l’America grande di nuovo coi dazi e la limitazione dei diritti

Ecco un altro leader che vede il cielo solo nella sua stanza e pensa che, nella tormenta globale che stiamo attraversando, ci si possa salvare da soli. George Simion ha vinto il primo turno delle presidenziali romene promettendo di «ripristinare l’identità nazionale», ma anche giurando di opporsi ai tecnocrati, dichiarandosi contrario all’integrazione europea e agli aiuti all’Ucraina, nonché nemico dei migranti e di ogni attivismo civico.
Non bastasse, ha decorato il suo sovranismo con la rivendicazione di lembi di Moldova e di Ucraina che vorrebbe riconquistare. Il suo modello è Donald Trump, e gli abbondanti consensi raccolti devono far riflettere.
Gli sbagli evidenti dei governi europei nel gestire la cosa comune, coi loro velenosi egoismi locali, stanno plasmando un nuovo elettorato pronto a tutto pur di cambiare, anche ad abbracciare la retorica più distante da sé, cioè il concetto Maga, la pozione presunta magica che vuole rendere l’America grande di nuovo coi dazi e la limitazione dei diritti. È uno slogan che non porta ancora risultati a Washington; ed è davvero arduo che possa farlo a Bucarest o dalle nostre parti.
I sistemi aperti hanno compreso che la chiusura trumpista non è la soluzione per i malfunzionamenti di un pianeta interconnesso. La reazione canadese è stata veemente, gli elettori hanno detto “no” all’annessione statunitense e alle barriere commerciali. In Australia le urne hanno premiato Anthony Albanese, padre pugliese e madre di origini irlandesi, laburista, sostenitore delle «opportunità per tutti e della gentilezza verso chi è nel bisogno».
Sono due Stati relativamente giovani, consapevoli di dover essere inclusivi e dialoganti per continuare a crescere. Davanti ai colpi di testa di Donald il Volubile, hanno optato per una linea solidale di progresso sociale che insiste nel porgere la mano al resto del mondo.
Una quota crescente dei cittadini del Vecchio continente non pensa che sia questa la strada. L’ultranazionalista Simion blandisce un Paese dove un terzo della popolazione è a rischio-povertà e il 20% degli attivi vive all’estero. Ha convinto chi è in difficoltà che è colpa della corruzione interna e della burocrazia europea, contestando un’alleanza che versa a Bucarest 80 miliardi a fondo perduto ogni settennato. Ha trovato terra fertile perché l’Unione delle promesse non coincide con quella dei fatti, e la principale differenza nasce dalla limitata disponibilità dei Ventisette a fare le cose insieme, nonché dalla diffusa disposizione a comunitarizzare le sconfitte e nazionalizzare le vittorie. È il peso del passato. Ora la Romania può diventare un’altra Ungheria e somigliare alla Slovacchia (e alla Serbia), ma anche alla Bulgaria e a pezzi di Germania, Polonia e di Italia.
Davanti ai drammi della Storia occorrerebbe prioritariamente concentrarsi sul trasferimento della moralità dalla sfera personale a quella collettiva, lavorare sul benessere comune al netto dei colpi di coda di un quotidiano che sa oscillare tra il tragico e il comico.
Convincersi che il patto europeo va aggiustato, non gettato alle ortiche sovraniste ed esposto ai venti della guerra di Putin. La cronaca ricomincia domani quando il neocancelliere tedesco Merz andrà in visita da Macron. Vuole rimettere in moto il motore franco-germanico. L’errore sarebbe limitarsi nuovamente solo a quello, quando invece è il tempo di allargare le intese ripartendo dal mercato e dalle sue libertà. L’Europa deve essere di tutti e con tutti, oppure non sarà. —
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