L’idea sbagliata di Trump sui «perdenti»

Nella prospettiva di Trump il successo è una giustificazione morale. Ma le comunità prosperano attraverso reti di cooperazione, non grazie a una spietata competizione

Diego Marani
Donald Trump (Epa)
Donald Trump (Epa)

Nel linguaggio di Donald Trump ritorna ossessivamente una parola: “loser” (perdente). Non si tratta di un dettaglio stilistico, ma di un indizio rivelatore di un’intera visione del mondo. Nel suo lessico, la realtà umana sembra ridursi a una grande competizione: da una parte i vincenti, dall’altra i perdenti. Chi non riesce a prevalere, chi non accumula ricchezza, fama o potere, viene bollato con disprezzo e relegato ai margini della società.

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Donald Trump (Epa)

Questa concezione affonda le sue radici in una mentalità ben più vasta, che intreccia cultura americana, etica protestante e logica neoliberista. Già Max Weber aveva mostrato come l’etica protestante, soprattutto nella sua versione calvinista, legasse il successo terreno a un segno di elezione divina: prosperità e vittoria diventavano indizi della grazia, mentre la sconfitta e la povertà erano percepite come stigma.

In questa prospettiva, il successo non è soltanto un obiettivo, ma una giustificazione morale. La ricchezza, il potere, la vittoria sono considerate ricompense legittime mentre chi resta indietro non è soltanto sfortunato ma anche colpevole.

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Donald Trump assieme a J. D. Vance

Trump incarna questa visione in modo caricaturale ma efficace. La parola “looser” è un’etichetta definitiva che cancella la complessità delle vite individuali e riduce ogni storia a un risultato di classifica. Una retorica che si inserisce perfettamente in un contesto sociale dove l’ideologia della competizione è stata elevata a dogma.

La società appare come un’arena dove tutti combattono contro tutti e dove il senso dell’esistenza si misura esclusivamente in termini di vittoria o sconfitta. Ma proprio qui si rivela l’aspetto più devastante di questa mentalità. La riduzione della vita a gara distrugge ogni fondamento etico. Laddove domina la logica dei vincitori e dei vinti, non c’è spazio per la solidarietà né per la dignità intrinseca di ogni essere umano.

Se la vittoria è l’unico criterio, la compassione diventa un difetto, la cooperazione una debolezza, la giustizia sociale un intralcio. L’altro non è più un compagno con cui condividere la vita, ma un ostacolo da superare o un rivale da eliminare.

La storia umana mostra invece il contrario: le comunità prosperano non grazie alla spietata competizione, ma attraverso reti di cooperazione, cura reciproca, responsabilità condivisa. Le grandi conquiste della civiltà – dalla scienza alla democrazia, dall’arte alla solidarietà sociale – non nascono dall’ossessione di vincere sugli altri, ma dalla capacità di costruire insieme.

Ridurre l’esistenza a una gara tra vincitori e vinti significa degradarla a un gioco crudele e privo di senso. Ogni essere umano, anche il più fragile, porta con sé una dignità che non può essere misurata con i parametri del mercato o dello spettacolo.

La parola “loser”, brandita come insulto, rivela dunque la povertà di una visione che richiama le parole della Thatcher quando affermava che “non esiste una cosa chiamata società”. Di fronte a questa logica, occorre riaffermare una verità semplice ma essenziale: l’essere umano non è chiamato a vincere sugli altri, ma a vivere con gli altri. Solo in questa dimensione l’uomo può dare un senso alla sua vita su questa terra.

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