Von der Leyen e leadership che latita
La Commissione Ue non rappresenta l’Europ: Von der Leyen si è trovata a colmare il vuoto lasciato dagli Stati: ci ha messo la faccia, senza averne il mandato


Organizzare un evento pubblico per parlare del Piano Draghi un anno dopo, e trovarsi ad ammettere che solo l’11 per cento delle proposte è stato realizzato, era chiaramente un’arma a doppio taglio. Da un lato, era come mettere il fondoschiena davanti alla pedata, tanto era ovvio che i nemici dell’Europa avrebbero trovato un’altra occasione per ribadire la loro visione di inutilità e inerzia del Patto a Ventisette.
Dall’altro, era la naturale occasione per suonare la campana e dire la verità, cioè che “l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma la nostra stessa sovranità” (parole di Super Mario). Così è andata. L’allarme per la sopravvivenza a rischio è arrivato puntuale. Ora aspettiamo le conseguenze. Sempre che ce ne siano.
La battaglia degli europeisti contro i mulini in cui soffia il vento velenoso dell’euroscetticismo è caratterizzata da un malinteso di fondo che nessuna capitale ha interesse a precisare e correggere. Ursula von der Leyen – “la tedesca” secondo una vulgata sovranista che evidentemente genera consensi – è diventata il volto dell’Unione, compito che i Trattati non prevedono per la presidente della Commissione.
L’esecutivo, a ogni effetto, è un collegio nominata dai governi nazionali, vincolato a un voto di fiducia dell’Europarlamento democraticamente eletto da tutti i cittadini del Continente che vanno a votare. Questo gli attribuisce una qualche legittimità politica, ma dovrebbe finire qui. Il suo compito, a farla semplice, è quello di ufficio legislativo del Consiglio (i Ventisette) e di controllore della coerenza delle loro decisioni con gli impegni presi insieme a Bruxelles. In più ha la titolarità dei negoziati commerciali (su mandato delle capitali) e della politica di Concorrenza, oltre che di vigilante sulla stabilità fiscale e macroeconomica.
La Commissione Ue non è l’Europa. Come non lo è Ursula von der Leyen che, non senza far fatica, si è trovata a colmare il vuoto lasciato dagli Stati. Ci ha messo la faccia, senza averne il mandato (e l’autorità), per provare a salvare la baracca e i burattini a dodici stelle. Si è presa più critiche che lodi, evidenziando la disfunzionalità istituzionale dell’Ue. Nelle more delle policrisi, ha chiesto a due tecnici di peso (Draghi e Letta) di fare il punto su ciò che non va e su quello che si può fare, poi ha girato il dossier ai leader comunitari che lo hanno lasciato cadere, tanto erano impegnati a guardarsi l’ombelico e a trascurare le soluzioni comuni per i problemi di tutti.
L’ex capo della Bce oggi chiede coesione, progetti di sviluppo e investimenti. Ursula annuisce. Tuttavia non accadrà nulla sinché anche il Consiglio, cioè gli stati membri, si scrolleranno dal torpore alimentato dalla paura delle forze che preferiscono il loro borgo alla comunità continentale.
Dovrebbero muoversi i leader, e dare il microfono al presidente del Consiglio, Antonio Costa, il solo che può avere la facoltà di parlare per l’Europa. Lui, non Von der Leyen. Eppure non succede e forse non succederà. Così è più pratico: se la presidente ce la fa, è merito dei Ventisette; se fallisce è colpa della “tedesca”. Comodo, quanto inutile.
L’Europa ha bisogno di leadership corale per non essere il vaso fragile nel nuovo mondo dei bilateralismi. E se i leader tacciono, il conto lo pagheremo noi, in ogni singolo condominio, debole, isolato e senza voce se non quella aspra e frastornante dei nazionalisti miopi e senza una visione costruttiva.
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