I piani di «Bibi» sono un macigno sullo Stato palestinese

Fare durare il conflitto è la sola carta di cui Netanyahu dispone per garantire la propria sopravvivenza politica

Renzo GuoloRenzo Guolo

Mentre il mondo guarda all’Ucraina, dal fronte dell’altra guerra, quella di Gaza, non giungono segnali incoraggianti. Nonostante le perplessità dei vertici militari che, come le famiglie degli ostaggi, ritengono incompatibile cercare di liberare, incolumi, i sopravvissuti e, al contempo, distruggere Hamas nel corso di una feroce battaglia casa per casa, rudere per rudere, Israele ha dato il via libera al piano di occupazione dell’intera Striscia. Per attuarlo, sono già stati richiamati oltre sessantamila riservisti.

Una decisione, quella del governo Netanyahu, che non tiene conto della crescente opposizione interna alla prosecuzione della guerra, non più espressione di sole minoranze intense, ma di fette sempre più consistenti, anche se non ancora maggioritarie, della società israeliana: mutamento evidente nella vasta partecipazione alle manifestazioni dei giorni scorsi.

Il piano prevede lo sfollamento da Gaza City della popolazione, oltre un milione di persone, e la sua concentrazione in una ristretta fascia davanti al mare, in campi dai quali sarebbe impossibile uscire. Scenario che lascia prevedere il possibile, forzato, definitivo, sfollamento dei gazawi fuori dalla Striscia, obiettivo nemmeno tanto inconfessabile da parte israeliana.

Esito che, unito all’approvazione del mega-insediamento abitativo in Cisgiordania destinato a tagliare in due uno spazio già ampiamente e arbitrariamente colonizzato, renderebbe impossibile la nascita di quello Stato palestinese che doveva sorgere dal processo negoziale sancito dagli accordi di Oslo.

La decisione solleva le proteste sia dell’Anp sia dell’Ue, che la considera una palese violazione del diritto internazionale. La condanna certo non intimorisce il leader del partito nazionalreligioso e ministro Smotrich , o il ministro e leader del partito suprematista Ben Gvir, fautori della Eretz Israel biblica, dai confini tanto imprecisati quanto più ampi di quelli attuali. Smotrich ha definito il varo del piano un passo che cancella «l’illusione dei due Stati» e certifica «la presa del popolo ebraico sulla Terra d’Israele».

Alla discussione sullo Stato palestinese partecipa pure Netanyahu che, stabilendo strumentalmente un nesso tra le questioni, accusa Macron – a breve la Francia riconoscerà la Palestina -, di alimentare l’antisemitismo.

Da ultimo, ma non certo ultimo, il probabile rifiuto dello stesso Netanyahu di accettare la proposta di tregua che, invece, Hamas sembra aver accolto: a condizione che nel primo dei 60 giorni di cessate il fuoco inizi il negoziato che dovrebbe sancire la fine della guerra e il ritiro dell’Idf da Gaza. Ipotesi, peraltro, già respinta in primavera da Netanyahu. I

l premier israeliano sa bene che la fine delle ostilità coinciderebbe con quella del suo governo, che si regge sul decisivo appoggio dell’intransigente destra messianica. Impossibile, in caso di dimissioni, che Bibi possa presentarsi alle elezioni con qualche chance di vittoria. Così l’irriducibile premier marcia sulla strada di sempre: quella del fatto compiuto e della guerra permanente. Nel tentativo di far durare il conflitto: la sola carta di cui dispone per garantire la propria sopravvivenza politica. Solo Trump potrebbe costringerlo a porvi fine, ma difficile che metta all’angolo un alleato che definisce «un brav’uomo che combatte e un eroe di guerra». —

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