L’accordo Usa-Ue sui dazi è un affare pessimo, ma inevitabile
Le tariffe al 15% concordate tra Trump e von der Leyen saranno percepite come una grande vittoria e stelle e strisce, ma non è detto che funzionino. L’Europa era spalle al muro, ora le nostre imprese vanno aiutate

Gli americani pagheranno adesso il 15% di dazio sulle merci comprate in Europa, eppure l’accordo siglato in Scozia da Donald Trump con Ursula von der Leyen verrà in principio percepito dagli elettori repubblicani come una «imponente» vittoria del presidente. Il quale ha imposto nuovi vincoli commerciali a sessanta Paesi accusati di sfruttare «la Terra delle Opportunità», inclusa l’odiata Unione, entità creata «per fottere» gli Stati Uniti (parole di The Donald).
Zigzagando fra estorsione e ricatto, l’inquilino della Casa Bianca ha azzoppato l’imperfetto ordinamento multilaterale e costretto i partner ad accettare il suo diktat. I fan del “Make America Great Again” sono certi di aver trionfato. Anche se, avvertono gli economisti, tutto questo ha buone probabilità di ritorcersi contro di loro.
Prima che Trump annunciasse che “dazio” è la parola che ama di più, le merci europee erano soggette in media a un diritto di dogana dell’1,47% alla fine del viaggio verso gli Usa, mentre sulla direttiva opposta il tributo era dell’1,35. L’America soffriva però di un deficit commerciale nei confronti dei Ventisette e ciò è bastato perché il presidente sancisse che lo stavamo fregando; la circostanza secondo cui il saldo sui servizi fosse ampiamente favorevole a Washington non è stata considerata.
Il biondo presidente ha deciso di invertire la tendenza alzando le tariffe, promettendo 300 miliardi dai limiti alle compravendite globali per sanare il bilancio federale in rosso profondo. La voce di chi faceva notare che (1) i dazi sono a carico degli americani, e (2) c’è un rischio per crescita e inflazione, non ha sfondato. L’homo sapiens è una specie che considera verità le bugie ripetute più volte. Si crede che gli esiti non saranno quelli attesi. Le merci saranno più care da New York in là, mentre va verificato che la paura dei rincari doganali convinca le imprese a stabilirsi negli Usa, avviando la reindustrializzazione sognata da Trump. I benefici per produzione e lavoro (solo l’8% degli occupati è nell’industria) non sono affatto sicuri. Il dollaro calerà ancora e per l’euro è una cattiva novella.
Il 15% accettato unilateralmente dall’Europa – con acciaio e alluminio al 50% e investimenti miliardari oltreoceano - è un pessimo affare, e poco serve dire che il 30 sarebbe stato peggio. È un accordo che graverà sulle nostre imprese. Tuttavia non ha senso lamentare che occorreva non avere paura, essere più compatti e giocare più duro. L’Ue del minimo denominatore comune è debole quanto la proiezione dei suoi litigiosi condòmini. Aveva le spalle al muro, ha ceduto, ma non basta a dire che è finita. Incassato il colpo, si deve dare una mano alle aziende (con fondi e regole, a livello comunitario e nazionale) e trovare nuovi clienti.
La reazione può cominciare con l’attuazione dell’intesa con i sudamericani del Mercosur che l’Italia (e in parte la Francia) non vuole, sebbene valga 100 miliardi di affari a dazi ridotti. Seguono India, Cina e Pacifico. Si può piangere sul latte versato. O concentrarsi, insieme, su quello che si deve fare: difendere i cittadini europei dagli arbìtri di chi, pensando di avere più diritti degli altri, sta portando l’ordine globale a sbattere contro lo sciocco muro tariffario atlantico.
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