Attacco di Israele a Doha, si alza il velo sull’obiettivo di Netanyahu
L’attacco contro la leadership di Hamas in Qatar è la conferma che il premier di Israele punta solo alla vittoria totale. Le possibilità di un accordo sono sempre più flebili


L’attacco contro la leadership di Hamas a Doha, palese violazione della sovranità del mediatore del conflitto Qatar ed ennesimo colpo all’ormai esangue diritto internazionale, conferma che Israele punta solo alla vittoria totale. Netanyahu presenta lo strike come una risposta all’attentato di Gerusalemme, rivendicato da Ezzedin el Qassem, l’ala armata di Hamas. Ma un simile raid non si organizza in poche ore: il che conferma come i vertici islamisti palestinesi fossero da tempo nel mirino anche nella capitale del Golfo, che ospita stabilmente i dirigenti dell’ala politica dell’organizzazione.
La scelta di provare a decapitare Hamas, replicando quanto avvenuto con Hezbollah, ha un solo intento: far fallire ogni ipotesi negoziale. Quale forza può accettare di venire colpita mentre la sua delegazione discute della proposta che dovrebbe porre fine alle ostilità? Cosa accadrebbe se i russi lanciassero missili e droni contro i vertici ucraini riuniti in una capitale terza per decidere se accogliere l’ukase di Mosca benedetto, più o meno palesemente, dal “mediatore” Washington?
Oppure, per restare a altri negoziati sotto le bombe, se durante la guerra in Vietnam Nixon e Kissinger avessero ordinato di colpire la leadership di Hanoi mentre questa era impegnata a Parigi a trattare con gli Usa? Un principio chiave della diplomazia è: se vuoi discutere con il nemico, devi fare in modo che possa farlo. Almeno sino a quando non si decide di eliminarlo totalmente.
Preda dei poco astratti furori di Netanyahu, che nella guerra infinita vede il mezzo per durare, e dei folli progetti messianici dell’estrema destra nazionaleligiosa e kahanista, che vuole ricolonizzare Gaza e annettere la Cisgiordania, il governo israeliano non ha alcuna intenzione di chiudere il conflitto senza conseguire i suoi obiettivi. Gli stessi che cozzano contro la non certo ostile proposta americana accettata da Hamas, che prevede, in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi, il ritiro dell’Idf dalla Striscia e l’avvio di un negoziato sulla definitiva soluzione del conflitto.
Discussione, quella sul futuro di Gaza, esclusa sia Netanyah , sia i suoi sodali Smotrich e Ben Gvir. Non si comprenderebbe, altrimenti, la demolizione degli ultimi edifici ancora in piedi a Gaza City e la decisione di dare inizio all’evacuazione forzata della popolazione che ancora vi sopravvive: quasi un milione di persone costrette a lasciare la città per venire concentrata in “campi umanitari” dai quali si uscirà solo per lasciare la Striscia, dunque per abbandonarla “volontariamente” oppure esserne espulsi.
Nell’illusione di cancellare la questione palestinese con la pulizia etnica e fare di Gaza il fantasmagorico resort sognato dal presidente-immobiliarista-affarista Donald Trump, peraltro, informato dell’attacco a Doha «a operazione in corso» dallo stesso Bibi, che ne rivendica, orgogliosamente, il suo tratto «indipendente».
Non è difficile comprendere come, in un simile scenario, ulteriormente deteriorato dagli ultimi sviluppi, le possibilità di porre fine al conflitto con un accordo siano sempre più flebili.
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