La carta Giorgetti: è lui la leva di Salvini su Meloni per le regionali

Il leader leghista può mettere in difficoltà il governo sui fondi per le misure fiscali se il Carroccio non dovesse ottenere il Veneto

Carlo BertiniCarlo Bertini
Matteo Salvini a Cernobbio
Matteo Salvini a Cernobbio

Se c’è una cosa che la Lega di Matteo Salvini ha ereditato dal movimento fondato da Umberto Bossi è la struttura da “partito leninista”: definizione scolpita da Roberto Maroni, anche se delle «migliaia di persone da motivare, un capo che comanda e un progetto da seguire», oggi è rimasto solo un capo che comanda: di secessione non si parla, il federalismo è finito in soffitta e anche l’Autonomia regionale non se la passa tanto bene, per parafrasare Woody Allen.

E se il progetto da seguire oggi vorrebbe essere quello nazionalista e sovranista, a rigettarlo con veemenza sono i pezzi grossi della Lombardia (e la base storica in Veneto) che ogni giorno lanciano bordate contro il “vannaccismo”: come quelle del governatore lombardo Attilio Fontana, rilanciate dal vicepresidente del Senato, Gianmarco Centinaio, sintomo di malesseri diffusi e perniciosi.

Ecco perché il segretario, assediato dai suoi e insidiato dagli alleati sul dopo Zaia in Veneto, ha giocato d’anticipo su Meloni e Tajani, facendo lui un nome spendibile per la candidatura a governatore, quello di Alberto Stefani. E poi a Cernobbio ha fatto capire di poter contare su un alleato forte per questa difficile campagna d’autunno: colui che tiene le redini della borsa, che fa e disfa tabelle di spesa dei ministeri, che si professa ottimista tanto da annunciare «una manovra senza sacrifici» e quindi può rivelarsi arma potente nello scambio di colpi con gli avversari.

Proprio di fronte al selezionato consesso di Villa d’Este, ospite con Giorgetti, il leader leghista ha rimarcato la prassi secondo cui chi nei momenti topici si tira fuori dalla battaglia può essere chiamato fuori dal partito. Regola alla quale si è sottratto solo Zaia, quando ha rifiutato di candidarsi alle europee, ma a cui non può sottrarsi un personaggio pur indipendente come il ministro dell’Economia, nato nell’era Bossi, sempre in riga quando serve. Tanto per far capire l’antifona, Salvini ha fatto sapere che «con Giorgetti ci sentiamo ogni giorno»: ma per cosa? «Per valutare gli importi per la rottamazione delle cartelle esattoriali, boccata d’ossigeno per l’economia».

Lo dice per blandire le partite Iva, ma dice pure una cosa indigesta per altri imprenditori, i banchieri cui Giorgetti guarda con estrema attenzione. Quella provocazione «le banche non possono che essere orgogliose di contribuire», è arrivata alle orecchie di Giorgia Meloni come un avvertimento: della serie, attenti che se mi togliete il Veneto vi farò mangiare polvere su dove trovare i fondi per le misure populiste su fisco che abbiamo promesso. La premier, alle prese con la partita scivolosa del riassetto del sistema bancario, deve farsi due conti: se negasse il Veneto alla Lega, Salvini dovrà portare a casa per forza qualcosa d’altro che pesi, altrimenti i suoi lo sbraneranno vivo.

E se, come un animale ferito, cominciasse a mordere ai polpacci per tassare le banche, facendo innervosire i Berlusconi, i vari Caltagirone e company, diventerebbe un pericolo per il governo. Quindi, la mossa del Capitano conferma che Salvini procede a testa bassa, pur sapendo di sbattere contro un muro: sa che a forza di testate magari si aprirà una breccia. Viceversa, se la Lega avrà il Veneto, per forza dovrà mollare la presa su altre partite di prima grandezza, dal fisco in giù: le regole della politica sono spietate, la legge di bilancio sarà merce di scambio delle prossime settimane e la maggioranza combatterà colpo su colpo. 

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