Pozzo: imprenditorialità, un grande patto anti crisi

Il presidente di Confindustria Udine: insieme aziende, istituzioni e dipendenti. «Bisogna spingere sulla transizione digitale per tener testa ai Paesi asiatici»

Maura Delle Case
Il presidente di Confindustria Udine Luigino Pozzo
Il presidente di Confindustria Udine Luigino Pozzo

L’industria italiana attraversa un periodo di profonde sfide e trasformazioni. «La concorrenza dei Paesi asiatici è sempre più aggressiva, gli investimenti pubblici in innovazione e tecnologia vanno a rilento e cresce l’ingresso di fondi finanziari che gestiscono le aziende secondo logiche di breve termine, spesso in contrasto con la visione industriale tradizionale».

A dirlo è il presidente di Confindustria Udine, Luigino Pozzo, che a fronte del contesto rileva il rischio di una crisi dell’imprenditorialità nel Paese e lancia un appello accorato: «Serve un nuovo “patto” tra imprese, istituzioni e lavoratori, capace di distribuire rischi e responsabilità e di sostenere l’innovazione come leva strategica per il futuro del territorio e del Paese».

Un appello già formalizzato nei giorni scorsi dal palco dell’assemblea generale di Confindustria a Trieste, che Pozzo ribadisce qui con forza e urgenza, ritenendo che senza una vera azione di corresponsabilità il futuro dell’impresa italiana – nondimeno nordestina – sia segnato. E non in positivo.

Presidente Pozzo, lo stato di salute della nostra economia la preoccupa...

«Negli ultimi 80 anni, industria e imprenditori hanno portato benessere al territorio. Oggi la situazione è diversa. La pandemia ha rappresentato uno spartiacque e nel periodo post-globalizzazione e le condizioni sono cambiate profondamente, sia industrialmente sia socioeconomicamente. I dati del resto parlano chiaro: in passato il settore pesava per il 25% del Pil nazionale, oggi quella percentuale è scesa al 18. E il calo riguarda tutti i comparti: automotive, acciaio, tecnologie avanzate. In più, la concorrenza dei Paesi asiatici, che prima non eravamo abituati ad affrontare, è ora un fattore determinante. Il settore industriale fatica a tenere il passo con le nuove tecnologie, la transizione digitale e l’intelligenza artificiale. L’aumento delle importazioni dalla Cina del 10% a fronte di un calo delle esportazioni nazionali indica chiaramente le difficoltà che stiamo attraversando. La trandizione digitale è centrale. Le tecnologie evolvono rapidamente, ma la formazione dei giovani, dei manager e degli imprenditori non sempre tiene il passo. E questo crea un rischio: se il sistema nel suo insieme non è pronto, lo sviluppo tecnologico può diventare un problema invece che un’opportunità».

Di chi è colpa?

«Non parliamo di colpe. Diciamo che gli imprenditori hanno continuato a investire ma quello sforzo da solo non basta. La pubblica amministrazione deve affiancare le imprese con investimenti importanti. Il mio auspicio è che il Governo punti con decisione sullo sviluppo tecnologico e perché se non avrà, se non avremo il coraggio di farlo ipotecheremo lo sviluppo dei prossimi anni, la capacità competitiva delle nostre aziende e con quella salari e occupazione».

Sembra una bocciatura della prossima legge Finanziaria...

«Nella Finanziaria il Governo ha fatto alcuni passi giusti, a partire dall’abbassamento del cuneo fiscale sul quale insisto da tempo: due punti percentuali in meno di Irpef vanno nella direzione giusta e spero che anzi siano solo un inizio. D’altro canto però non posso non rilevare come la manovra manchi di investimenti pesanti sull’innovazione. Si può, anzi si deve fare di più se, ripeto, vogliamo garantire un futuro alla nostra industria. E a doverlo fare sono anche i fondi di private equity che sempre più spesso vediamo partecipare le nostre imprese, con logiche che non sono esattamente quelle dello sviluppo, ma del profitto».

I fondi non investono abbastanza?

«A differenza della classe imprenditoriale, che tradizionalmente investe sul futuro, mettendo a disposizione capitali e conoscenze, puntando sull’innovazione e su una visione industriale di lungo termine, i fondi di investimento guardano al risultato economico e non a una prospettiva industriale e tecnologica. Ci vuole dunque uno sforzo da parte di tutti gli attori – imprese, pubblica amministrazione e finanza – per consentire alle nostre aziende di tenere il passo con l’avanzamento tecnologico se vogliamo essere competitivi nei confronti di Paesi che nel recente passato ci stavano dietro ma che oggi invece ci stanno superando».

Non vede dunque di buon occhio la finanza alla guida delle imprese...

«Non sono contrario, dico solo che quando i fondi entrano nelle aziende devono fare uno sforzo di visione, guardare avanti nel tempo, investire risorse consentendo alle società di crescere, non fermarsi all’ultima riga di bilancio».

Dinamiche che a sentir lei alimentano una certa crisi dell’imprenditorialità....

«Il rischio d’impresa ha raggiunto livelli che non sono più sostenibili se lasciati unicamente sulle spalle del singolo imprenditore. Il contesto globale — segnato da instabilità geopolitiche, transizioni energetiche, normative complesse e mercati altamente competitivi — espone chi fa impresa a una sproporzione molto accentuata tra il carico di responsabilità e il sostegno ricevuto dal sistema-Paese. L’imprenditore italiano resta troppo spesso isolato. Alla fine, è chiamato a sopportare individualmente rischi che invece dovrebbero essere anche distribuiti lungo l’intera filiera economica».

Cosa propone?

«Un nuovo patto tra mondo dei diritti e mondo dei doveri, oggi decisamente sbilanciato a sfavore dell’impresa, capace di costruire un terreno comune di fiducia e collaborazione. Il futuro del sistema produttivo italiano e con esso la tenuta del nostro modello sociale dipende dalla capacità di trasformare il rischio individuale in responsabilità collettiva. Soltanto attraverso una collaborazione reale tra impresa, istituzioni, lavoratori e comunità sarà possibile creare un contesto in cui l’impresa sia premiata e sostenuta, e in cui chi decide di investire nel futuro del Paese non sia lasciato solo, ma accompagnato da un sistema che condivide, sostiene e valorizza il coraggio del fare impresa e il suo insostituibile valore sociale».

Impresa, istituzioni e lavoratori. Come immagina il coinvolgimento dei dipendenti?

«Si parla molto della partecipazione dei dipendenti alle imprese, che ha trovato spazio anche nella legge 76 del 15 maggio 2025, e io sono totalmente favorevole, a patto che si faccia con un ragionamento di corresponsabilità. Se la partecipazione dei dipendenti si limita alle premialità legate alle performance aziendali allora quella l’abbiamo già nella contrattazione di secondo livello. Quello che intendo e che credo si debba fare è invece far partecipi i dipendenti delle stese responsabilità che hanno gli imprenditori. Solo così potremo avere un beneficio importante su questa strada». —

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