Ilva da salvare e il Nord affamato di acciai piani per la sua industria
L’accordo sulla decarbonizzazione di Taranto lascia aperti gli interrogativi sui destini del gruppo. Il bivio: cessione in blocco degli asset di Acciaierie d’Italia oppure la strada dello “spezzatino”

La nuova Ilva dovrà necessariamente sostituire tutti gli altiforni con forni elettrici, ma nulla è stato deciso sugli impianti di produzione del pre-ridotto Dri e sul relativo approvvigionamento di gas. L’intesa sulla decarbonizzazione raggiunta l’altro ieri tra società, ministeri ed enti locali non è infatti ancora un accordo di programma.
Prima occorre aspettare il 15 settembre, quando scadranno i nuovi termini per la presentazione di offerte vincolanti di acquisto dei beni e delle attività aziendali del Gruppo Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria. Solo se si paleseranno potenziali acquirenti si affronteranno i nodi irrisolti su Dri ed energia sulla base dei relativi piani industriali.
Resta quindi molto incerto il futuro dell’ex principale gruppo siderurgico italiano, l’unico oggi a ciclo produttivo integrale da minerale di ferro e carbone.
Quel che è certo è che il governo darà la priorità alle offerte per tutto il perimetro societario. Come era stata quella degli azeri di Baku Steel selezionata la scorsa primavera, che prevedeva di riportare la produzione a un punto di equilibrio economico di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno rispetto ai 2 milioni a cui è crollata nel 2024. Un’offerta poi abortita in pochi mesi in seguito all’incendio di un altoforno e alle continue polemiche sul rigassificatore di Taranto.
In seconda istanza, verrebbe considerata la vendita frazionata degli asset aziendali, il cosiddetto “spezzatino”. Ipotesi piuttosto plausibile: diverse voci di settore dicono infatti che sia Marcegaglia sia Arvedi sono interessati ad acquisire gli impianti liguri e piemontesi di Acciaierie d’Italia, qualora non si trovasse un acquirente unico per l’intero complesso aziendale.
Marcegaglia in particolare considererebbe Genova Cornigliano funzionale con il sito di Fos-sur-Mer su cui sta investendo in Provenza. Mentre Arvedi si è sinora tenuto abbottonato. Tra gli operatori e gli osservatori del settore siderurgico è però opinione diffusa che la vendita a spezzatino ridurrebbe in maniera ancora più drastica l’appetibilità del tribolato impianto di Taranto.
Ma in che modo il rilancio dell’ex Ilva potrebbe rispondere alla domanda di acciaio dell’industria italiana?
Storicamente gli altiforni di Taranto producono diverse tipologie di acciai piani al carbonio, che vengono poi in parte rilavorati negli altri stabilimenti ex Ilva e in parte venduti a trasformatori, come per esempio proprio Marcegaglia, e a clienti industriali di vari settori.
Sulla carta in Italia esiste un rilevante mercato per questa macro categoria di prodotti siderurgici. Ben due terzi del fabbisogno nazionale di acciai piani è infatti oggi importato, soprattutto da Paesi extra Ue. Si tratta di semilavorati quali bramme, bobine laminate a caldo e lamiere da treno impiegati per fabbricare macchinari, elettrodomestici, mezzi di trasporto, tubi, imballaggi, scatolame alimentare, articoli di consumo vari.
Sicuramente la crisi dell’ex Ilva e l’aumento dell’import di laminati piani sono andati di pari passo nell’ultimo decennio. Secondo un’analisi di Cassa Depositi e Prestiti su dati Federacciai, tra il 2012 e il 2023 l’output nazionale di acciai piani è calato da 14,5 a 9,6 milioni di tonnellate all’anno.
Il risultato è che nel 2023 l’Italia ha importato 11 milioni di tonnellate di semilavorati piani rispetto a un fabbisogno nazionale di 15 milioni. La contrazione è ancor più evidente se si fa il confronto con l’andamento nello stesso periodo della produzione di acciai lunghi, usati soprattutto nelle costruzioni, rimasta invece stabile a circa 12 milioni di tonnellate annue con l’import che copre meno di un quarto dei consumi nazionali (2 milioni su 9 milioni di tonnellate nel 2023).
Ma affinché Taranto, Genova Cornigliano e Novi Ligure abbiano un futuro all’interno dello stesso gruppo, oltre a rilanciare l’offerta di prodotti base, servirebbe anche una diversificazione in acciai speciali a maggior valore aggiunto. Questo perché la siderurgia mondiale soffre di un eccesso strutturale di capacità produttiva, in primis per i piani.
Inoltre sono aumentati i rischi che l’Europa venga invasa da commodity asiatiche, come tanti laminati, che non trovano più sbocco nel mercato americano protetto da dazi del 50% sull’acciaio.
Su cosa dovrebbe quindi puntare il piano industriale della nuova Ilva? «L’approccio ideale – osserva l’esperto siderurgico Davide Lorenzini – sarebbe quello di tipo brownfield, partendo dall’identificazione dei prodotti da realizzare a Taranto in modo da massimizzare la marginalità per tonnellata prodotta, generando così le risorse necessarie a sostenere un ambizioso piano di rilancio».
Lorenzini fa un esempio concreto: «Tra i prodotti ad alto valore aggiunto che potrebbero essere realizzati a Taranto, preservando al contempo parte del know-how dei dipendenti, vi sono gli acciai ad alta resistenza “High Strength Steel” o HSS. Questi materiali potrebbero trovare largo impiego nei progetti legati all’iniziativa europea ReArm EU e nelle grandi opere infrastrutturali, come i ponti.
Tali acciai – conclude l’esperto – possono essere prodotti sia con il ciclo integrale sia attraverso mini-mill con forni elettrici, tramite lavorazioni sia a caldo che a freddo, ed è plausibile che una parte degli impianti di Taranto possa essere riconvertita o “revampata” per adattarsi alle nuove esigenze produttive».
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