Export legno-arredo a rischio per i dazi Usa: 50% su cucine e 30% su mobili imbottiti

Il mercato Usa rischia di far perdere fino a 300 milioni alla filiera, tra calo dell’export e concorrenza di Cina e Vietnam

Giorgia Pacino
Claudio Feltrin, presidente di Federlegnoarredo
Claudio Feltrin, presidente di Federlegnoarredo

Di nuovo l’incertezza. L’ultimo annuncio del presidente Usa Donald Trump, che sul social Truth ha dichiarato di voler imporre a partire dal 1° ottobre dazi del 50% su cucine componibili, mobili da bagno e prodotti correlati e del 30% sui mobili imbottiti, ha rimesso in subbuglio il comparto del legno arredo. In ballo non c’è solo una riduzione a livelli preoccupanti dell’export verso gli Stati Uniti – già in calo del 7,7% a luglio – ma anche il rischio di un ulteriore aumento delle importazioni da Cina e Vietnam.

Se per il presidente del gruppo Fantoni, Paolo Fantoni, dazi al 50% significherebbero «l’azzeramento di molti sforzi, investimenti, attività imprenditoriale e commerciale» con un effetto «devastante», per Claudio Feltrin, presidente di Federlegnoarredo «rasenteremmo il dramma». «Con i dazi al 15% ci aspettiamo per la fine dell’anno una diminuzione delle esportazioni del 10%, che si tradurrà in una perdita di mercato tra i 250 e i 300 milioni. Se dovessimo salire al 30% e al 50%, avremmo problematiche molto pesanti per la filiera. Pensare al dimezzamento del mercato sarebbe una facile previsione», avverte Feltrin.

Qual è stata la reazione all’ennesimo annuncio?

«Si è scatenato il panico. È chiaro che i timori ci sono, ma le rassicurazioni arrivate dalla Commissione europea e alcune dichiarazioni dell’amministrazione americana sul rispetto dei patti firmati con Unione europea e Giappone hanno fatto rientrare un po’ la drammaticità dell’annuncio. Tra l’altro, siamo ancora in attesa dell’esito dell’indagine 232, che dovrebbe definire la pericolosità o strategicità del materiale legno e dei prodotti legnosi per valutare l’imposizione di un dazio non superiore al 15%. In entrambi i casi, sia che i mobili rientrino in questa sezione sia che vengano annoverati nell’accordo generale con l’Europa, dovremmo restare entro il 15%».

Perché allora questa nuova minaccia?

«Basta analizzare il mercato dell’arredamento americano: il 10% arriva dall’Europa, nella parte alta della piramide dell’alto spendente, il 90% arriva da Cina e Vietnam. La dichiarazione di Trump, in effetti generica, potrebbe inserirsi nella logica di andare a colpire quelle produzioni, ma la prova della verità l’avremo solo il 1° ottobre, a meno che non arrivi prima una dichiarazione più specifica. In ogni caso i dazi al 15% hanno già cominciato a dare i loro effetti».

Quali?

«A luglio l’export italiano verso gli Usa ha segnato un meno 7,7%, mentre l’ultima rilevazione disponibile per l’importazione in Europa di arredi cinesi rivela un aumento del 38%. Abbiamo già effetti diretti sul mercato americano, dove stiamo perdendo quote, ed effetti indiretti legati al fatto che anche i produttori cinesi stanno perdendo il mercato Usa e il primo mercato alternativo per loro è quello europeo».

Quanto vale oggi l’export italiano del comparto verso gli Usa?

«Come filiera esportiamo complessivamente 2,2 miliardi, la parte del leone la fa l’arredo con 1,7 miliardi. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato in assoluto, il prima extra Ue».

A quanto potrebbe ammontare il danno?

«A perimetro costante, mantenendo i dazi al 15%, rischiamo di andare verso una diminuzione del 10% per la fine dell’anno. A questo dobbiamo aggiungere la perdita del potere d’acquisto del dollaro che ha segnato da inizio anno un 15% di differenziale. Se i dazi saliranno ancora, chiederemo all’Europa e al governo italiano di intervenire con aiuti concreti per difendere le nostre industrie. Abbiamo aziende che esportano anche il 40-50% negli Usa: i danni saranno difficili da parare se le imprese vengono lasciate da sole».

Quali alternative esistono oggi al mercato Usa?

«Per la nostra tipologia di prodotto non si creano mercati alternativi dalla sera alla mattina. Per portare il mercato americano a 2,2 miliardi le nostre imprese hanno impiegato 40 anni. Certo, oggi ci sono mezzi di comunicazione più efficaci e diversi, ma c’è bisogno di tempo. I Paesi del Golfo sono promettenti, ma la risposta che si può immaginare sarà sempre più bassa del mercato americano. La sostituzione è complessa, anche perché tutti cercano mercati alternativi: come noi anche i cinesi. L’India potrebbe essere interessante, ma anche lì si sta ragionando su dazi e barriere normative. Per creare mercati alternativi bisogna andare a caccia: non è semplice, ma l’impresa va tentata».

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