La lezione di De Bettin: «I crediti di carbonio sono il vero carburante della transizione»

Il presidente di Dba Group e la sfida di rendere sostenibile l’innovazione

Luca Piana
Francesco De Bettin
Francesco De Bettin

Sulla transizione energetica lo scorso anno ha fatto un seguitissimo intervento alla Conferenza sui cambiamenti climatici di Baku. È consigliere delle agenzie internazionali che da anni lavorano sull’argomento. Fa parte di think tank che consigliano politiche pubbliche innovative (e non sempre attuate) a governi nazionali e regionali. Insomma, di transizione energetica e di crediti di carbonio Francesco De Bettin, cadorino, studioso e imprenditore, co-fondatore e presidente della società d’ingegneria trevigiana Dba Group, è esperto indiscusso a livello internazionale.

Nel dibattito sulla transizione si parla di rinnovabili, elettrificazione e idrogeno. Lei sostiene però che la vera prima energia della transizione sia quella che non consumiamo. Cosa intende?

«Noi immaginiamo pannelli solari, turbine eoliche o batterie al litio. Ma la forma di energia più immediata, sicura e accessibile è quella che risparmiamo. Ogni chilowattora non consumato equivale a un chilowattora prodotto in modo pulito. L’efficienza energetica, quindi, è la prima energia della transizione».

Spesso però gli interventi di efficientamento vengono percepiti come spese, non come investimenti.

«È un errore di prospettiva. Quando lo Stato o gli enti locali finanziano interventi di efficientamento non stanno spendendo per ridurre i consumi: stanno investendo in energia. Solo che questa energia non viene prodotta da fonti fossili o rinnovabili e non passa da cavi. Si manifesta come risparmio, comfort, valore patrimoniale e riduzione delle emissioni: non consumo, ergo non emetto».

In che modo le politiche pubbliche dovrebbero cambiare approccio, allora?

«Non considerando più l’efficienza come una sola riduzione della “spesa corrente” ma vedendola, invece, come vero e proprio capitale investito, nella logica della transizione e di un percorso di decarbonizzazione sostenibile».

Lei parla spesso di crediti di carbonio. Come si collegano all’efficienza energetica?

«Quando una riduzione di emissioni è reale, misurabile e addizionale rispetto a ciò che c’era, può essere certificata come credito di carbonio. Ogni credito rappresenta una tonnellata di CO2 non emessa o rimossa dall’atmosfera. E questi crediti hanno un valore economico concreto: possono essere scambiati sui mercati volontari o regolati, trasformandosi in una vera e propria “energia finanziaria” che alimenta nuove politiche pubbliche di decarbonizzazione. In pratica, il risparmio energetico diventa monetizzabile».

Quindi il credito di carbonio non è solo uno strumento contabile?

«È un meccanismo per governare le transizioni, rendendole più sostenibili e meno traumatiche. Riconosce e remunera il risultato - la riduzione di emissioni - ed è neutrale e flessibile. Permette a chi è più avanti di valorizzare i propri progressi e a chi è più indietro di compensare le proprie emissioni. È lo stesso principio che regge il sistema europeo Ets, il “cap and trade”: si stabilisce un tetto alle emissioni, ma si lascia al mercato decidere dove e come ridurle nel modo più efficiente».

Alcuni critici sostengono che queste politiche siano troppo costose rispetto ai risultati ottenuti.

«Ma non si tiene conto dell’intero problema, perché si confonde il prezzo con il valore. Il prezzo di un credito di carbonio è il risultato di un equilibrio di mercato. Il valore dell’efficienza, invece, è sistemico: significa occupazione, innovazione, competitività e sicurezza energetica per il Paese. I crediti di carbonio sono il carburante finanziario che permette di accelerare le transizioni».

Cosa significa “carburante finanziario”?

«Quei crediti possono essere scambiati o venduti sui mercati, generando risorse economiche. È un meccanismo virtuoso: gli investimenti pubblici producono benefici reali, che diventano asset economici capaci di autofinanziarsi nel tempo. Così la sostenibilità non è una voce di spesa ma una leva di crescita».

Quindi non si tratta solo di ecologia, ma di economia.

«L’efficienza riduce i costi strutturali del sistema, diminuisce la dipendenza da fonti fossili, rafforza il tessuto produttivo e crea lavoro qualificato. In più, migliora il comfort, la sicurezza e il benessere: cioè qualità della vita».

È vero che i credito di carbonio sono un esempio di neutralità tecnologica?

«Si tratta di un sistema che premia il risultato, non la tecnologia. Rende la transizione flessibile e graduale, non impone dogmi ma accompagna l’evoluzione tecnologica secondo le possibilità di ciascun settore».

In che modo questo meccanismo aiuta la transizione a essere meno traumatica?

« Il credito di carbonio funziona come ammortizzatore e incentivo all’innovazione: chi oggi spende per comprare crediti avrà convenienza, domani, a ridurre le proprie emissioni alla fonte, investendo sul miglioramento dei suoi processi operativi e tecnologici, contribuendo alla decarbonizzazione. È una spinta naturale verso la modernizzazione e la competitività verde».

Quindi crea anche un linguaggio comune tra economia e ambiente.

«Il credito di carbonio è la moneta del nuovo paradigma circolare. Trasforma in valore ciò che prima era spreco».

C’è chi teme che la vendita dei crediti annulli il beneficio ambientale. È così?

«No. La riduzione delle emissioni è reale e già avvenuta, tanto da essere certificata. Il credito di carbonio serve a bilanciare i conti globali delle emissioni, non a rimettere CO2 nell’atmosfera. In altri termini, non si incrementa l’effetto serra perché la quantità di anidride carbonica in atmosfera rispetto a prima della rimozione non varia: è diventata credito».

Se dovesse riassumere in una frase il senso di tutto questo percorso - efficienza, transizione e crediti di carbonio - quale sarebbe?

L’energia più pulita è quella che non consumiamo: il suo valore finanzia la transizione e ci porta vivi alla neutralità climatica». —

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