Dazi, Scarpa: «Non ci sono vinti né vincitori, bisogna produrre dove si vende»
Il presidente di Biofarma: «L’America alcuni farmaci, come
le cefalosporine, non ni produce nemmeno, il mercato assorbirà parte dei costi»

«Nessuno ha la verità in tasca, ma ogni crisi porta con sé una opportunità». Germano Scarpa, presidente della Biofarma di Mereto di Tomba, gruppo specializzato nello sviluppo, produzione e confezionamento di integratori alimentari, dispositivi medici, farmaci a base di probiotici e cosmetici in conto terzi, 436 milioni di fatturato e oltre 1.500 dipendenti, racconta la sua esperienza vincente sul mercato degli Stati Uniti, ma invita anche gli altri settori a cercare la strada per convivere con l’incertezza dazi.
La buona notizia, sottolinea l’imprenditore friulano, «è che non abbiamo assistito a vittorie di parte».
Come giudica l’intesa al 15%?
«Premesso che i dazi c’erano anche prima, e dunque non si partiva da zero, mi pare un punto d’incontro equo. Forse alcune categorie merceologiche sono più favorite di altre, ma è chiaro che si tratta di una mediazione, l’unica possibile per chiudere l’accordo prima del 31 luglio».
Meglio di così, all’Europa, non poteva andare?
«Sembrava in certi momenti che la vicenda potesse degenerare in numeri molto più pesanti, giusto perciò riconoscere all’Europa il merito di aver gestito la trattativa con equilibrio».
Né vincitori né vinti?
«Per fortuna no. Se ci fosse stato un vincitore e uno sconfitto, avremmo rischiato nuove tensioni. Così ognuno porta a casa qualcosa. Magari non tutto ciò che voleva, ma abbastanza da chiudere in modo dignitoso una trattativa che nei mesi scorsi ha generato parecchie frizioni».
Chi esce più penalizzato secondo lei?
«Se come pare l’accordo sull’acciaio, con dazi che restano al momento al 50%, avrà tempi lunghi, è chiaro che per quel comparto sarà un problema. Anzi, visto il ruolo strategico e i numeri che fa, sarà il punto determinante per un giudizio finale mirato su com’è andata la partita per l’economia. Partire comunque con un’intesa su altri fronti è già un buon segnale: prima o poi troveranno una quadra pure su quello. Conviene a entrambe le parti».
Nel 2024 l’export di articoli farmaceutici, chimico-medicinali del Friuli Venezia Giulia ha viaggiato sui 122 milioni, il 15% in più nel 2023. Si attende contraccolpi quest’anno?
«No, non credo. L’America non può fare a meno dei farmaci. Alcuni, come le cefalosporine, non li producono nemmeno. Il riassestamento sarà fisiologico, ma il mercato americano assorbirà parte dei costi. Parliamo di prodotti essenziali: se stai male, la medicina la compri anche se costa di più. Non tutto verrà scaricato sul consumatore».
Nel caso specifico di Biofarma, che tipo di dazi vi colpivano?
«Noi non produciamo farmaci in senso stretto, quindi non principi attivi, ma prodotti ibridi come integratori e nutraceutici. I dazi erano intorno al 10-12%, a seconda della modalità di spedizione. Ma quando una dozzina di anni fa ho aperto la mia prima fabbrica negli Stati Uniti, lo feci per un cliente americano che faticava a sostenere quei costi. Inviando il bulk, vale a dire il semilavorato, una miscela prodotta in Italia, e poi realizzando il confezionamento in loco, il prodotto diventava “made in Usa” e i dazi si abbassavano molto».
E oggi?
«Continuiamo a ricevere ordini di miscele da spedire. Ma abbiamo anche una società nel New Jersey che fattura circa 200 milioni di dollari e che produce interamente lì. Un modello integrato: parte della produzione in Italia, parte negli Stati Uniti.
Il modello è replicabile?
«Negli Stati Uniti produciamo integratori a base di vitamine, minerali e melatonina, con dosaggi fino a dieci volte superiori rispetto a quelli consentiti in Europa. Lì la normativa è diversa, perciò ha più senso produrre in loco. Più in generale, la verità è che le aziende devono pensare a delocalizzare non dove il lavoro costa meno, ma dove ci sono i mercati più grandi».
Un consiglio per i colleghi industriali?
«L’impresa moderna deve accettare la sfida del cambiamento continuo. Non esiste più un punto di arrivo. E in questo contesto, la diversificazione geografica diventa essenziale. Penso, per esempio, a settori come l’agroalimentare: lì non puoi spostare la produzione. Ma si può ripensare il modello, investendo in mercati esteri o lavorando su filiere miste».
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