Dazi, imprese venete in allarme: «A rischio tutti i settori, impossibile pianificare»
L’analisi di Raffaele Boscaini, presidente di Confindustria Veneto, dopo l’annuncio di Trump: «Le difficoltà potrebbero allargarsi a macchia d’olio su componentistica e beni intermedi»

«Le imprese, soprattutto quelle manifatturiere, hanno bisogno di programmare, investire, pianificare. E invece oggi ci troviamo di fronte a una situazione in cui non sappiamo cosa aspettarci domani».
Dopo l’annuncio di Donald Trump che saranno applicati dazi fino al 30% su alcune importazioni europee Raffaele Boscaini, presidente di Confindustria Veneto, dà voce all’inquietudine delle imprese da sempre proiettate sui mercati internazionali e che ora dovranno affrontare una situazione che metterà in difficoltà la competitività del Made in Italy.

Si aspettava dazi così pesanti da parte degli Stati Uniti?
«No. Fino a pochi giorni fa si parlava di un’ipotesi contenuta, con margini per una trattativa equilibrata. Poi è arrivato questo annuncio che cambia completamente le carte in tavola. È una mossa destabilizzante, perché manda in crisi mesi di negoziati e crea una pressione che si somma a quelle già in atto da tempo».
Cosa vi preoccupa di più?
«L’incertezza. Questo clima rende difficile ogni strategia di medio periodo. E poi c’è l’effetto immediato sul prezzo finale dei nostri prodotti negli Stati Uniti: un dazio del 30% su alcune merceologie rischia di farci perdere competitività in modo irreversibile».
Parliamo di numeri. Un dazio del 10% era già preoccupante, ma quanto cambia lo scenario un dazio del 30%?
«Completamente. Con un 10%, alcune nicchie di Made in Italy ad alto valore - penso al lusso o all’alimentare premium - potevano reggere. Ma con il 30% il rischio è che le difficoltà si allarghino a macchia d’olio a settori che lavorano su margini bassi e sulla competitività di prezzo: componentistica, subfornitura, beni intermedi. Parliamo di settori facilmente sostituibili da altri Paesi produttori».
C’è chi prevede che questi dazi siano solo una mossa negoziale per trattare da una posizione di forza. È d’accordo?
«Potrebbe essere. È un po’ lo stile da cowboy a cui certi leader ci hanno abituati: sparano alto e poi trattano. Ma ciò non toglie che l’impatto sull’economia reale può essere pesantissimo. Non possiamo permetterci di aspettare per capire se è solo un bluff: le imprese devono prendere decisioni ora, e senza certezze si rischia di sbagliare tutto».
Il dollaro debole è un altro fattore che penalizza l’export europeo. Va letto come una strategia?
«Il punto è che, al di là delle intenzioni politiche, un cambio meno favorevole e una tassa del 30% sono due zavorre che si sommano e mettono fuori mercato molti prodotti europei».
Quali sono oggi le vulnerabilità del nostro sistema produttivo?
«Le difficoltà non vengono solo dall’esterno. Le imprese italiane combattono ogni giorno contro una burocrazia opprimente, l’accesso al credito complicato, costi dell’energia troppo elevati e un carico fiscale che lascia poco margine per investire. Se a questo si aggiunge una guerra commerciale, il rischio è di trovarsi azzoppati in partenza».
È il momento di guardare ad altri mercati?
«È sempre il momento per diversificare. Un’impresa che esporta l’80% del proprio fatturato solo negli Stati Uniti è in una posizione di rischio strutturale, al di là delle vicende politiche. Così come è rischioso dipendere da un unico fornitore o da una sola filiera. Serve più equilibrio, a monte e a valle».
L’Europa dovrebbe rispondere con misure dure?
«Serve una posizione unitaria, ma ponderata. Nessuno vince in una guerra commerciale. La priorità deve essere proteggere il nostro tessuto industriale e sostenere le imprese in questa fase».
C’è anche il timore che le merci cinesi, già soggette a dazi, si riversino ora sul mercato europeo.
«È possibile. Se i flussi si spostano e l’Europa non ha meccanismi di protezione adeguati, potremmo subire una concorrenza ancora più aggressiva su molti comparti. Per questo è fondamentale che le istituzioni monitorino attentamente l’evoluzione del mercato globale e che l’Europa sia pronta a reagire anche sul fronte interno».
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