Dazi e produzioni in Usa, è tempo di aggiornare la nostra idea di impresa
Il futuro dell’internazionalizzazione passa per l’investimento diretto nei mercati esteri, a partire dagli Stati Uniti. Alcune imprese italiane, come Rana e Roncadin, l’hanno capito da tempo

L’inasprimento dei dazi Usa verso i prodotti europei e italiani in particolare non è una novità nella dinamica del commercio globale, ma rappresenta oggi una minaccia concreta per molte imprese esportatrici del Nord Est. La tensione crescente tra Washington e Bruxelles, aggravata dal rischio di ritorsioni incrociate, riporta al centro un tema troppo spesso trattato solo in termini tattici: la fragilità di un modello di internazionalizzazione ancora largamente fondato sull’export.
Le esportazioni sono state il principale motore di crescita del nostro manifatturiero, ma oggi mostrano i loro limiti. In uno scenario in cui il commercio internazionale diventa sempre più regolato da barriere, dazi e logiche di sicurezza strategica, vendere oltreconfine non basta più. Servono nuovi modelli di presenza internazionale, più robusti e meno esposti alla volatilità geopolitica.
È questa la linea già sostenuta da Giancarlo Corò proprio su queste pagine: il futuro dell’internazionalizzazione passa per l’investimento diretto nei mercati esteri, a partire dagli Stati Uniti. Alcune imprese italiane l’hanno capito da tempo. Roncadin ha aperto uno stabilimento in Illinois; Rana è presente da anni negli Usa con uno dei pochi casi di successo nel posizionamento premium del food italiano. Si tratta però di eccezioni. E, soprattutto, di imprese con risorse finanziarie, manageriali e dimensionali fuori dalla portata della media imprenditoria italiana.
La vera domanda, oggi, è un’altra: che ne sarà delle piccole imprese del Nord Est, che costituiscono la spina dorsale del nostro sistema produttivo e che da anni faticano a stare al passo con la competizione globale?
Nel mio ultimo saggio ho introdotto la categoria delle “imprese plug-in”: aziende tecnologicamente avanzate, spesso nate in settori emergenti, che possono contribuire all’aggiornamento competitivo di imprese più tradizionali, favorendone non solo l’innovazione ma anche l’accesso ai mercati internazionali. Non si tratta solo di fornitori o subfornitori digitali, ma di attori capaci di agire da interfaccia tra un mondo produttivo ancora manifatturiero e le nuove logiche della competizione globale.
Due esempi emblematici arrivano proprio dal Nord Est. Yoru è una startup che applica tecnologie ottiche avanzate al settore eyewear, uno dei comparti chiave del distretto bellunese. Con un approccio che fonde competenze di produzione e algoritmi, è in grado di offrire un prodotto altamente personalizzato e competitivo a livello globale. Azzurro Digitale, nata a Padova, ha costruito una solida reputazione nel campo della digitalizzazione dei processi industriali e, dopo una rapida crescita in Italia, sta muovendo ora i primi passi negli Stati Uniti.
Queste imprese, piccole, ma innovative e con proiezione globale sin dall’inizio, segnalano l’emergere di un nuovo modello imprenditoriale. Un modello che non si fonda sulla protezione garantita dalle filiere internazionali gestite da altri, ma su prodotti propri, know-how distintivo, visione strategica. Un modello che potrebbe rappresentare la nuova frontiera del fare impresa nel Nord Est: non più semplice manifattura d’eccellenza al servizio di altri, ma capacità autonoma di presidiare mercati, creare valore e generare innovazione.
Non si tratta di un cambiamento automatico, né privo di rischi. Richiede capitale umano qualificato, investimenti in ricerca, relazioni internazionali, governance moderna. È una ricetta articolata e non banale, ma è forse l’unico orizzonte possibile per uscire da una crisi che non è solo congiunturale.
La minaccia dei dazi Usa non va banalizzata come un’opportunità per “cambiare marcia”. È una minaccia reale, che colpisce i margini, la competitività e la sostenibilità di migliaia di imprese. Ma può costringerci a una riflessione più profonda: quella sulla struttura imprenditoriale del Nord Est, ancora troppo ancorata a un modello di piccola impresa isolata, poco capitalizzata, spesso incapace di affrontare da sola la sfida globale.
Il futuro non è scritto. Ma se davvero vogliamo che il Nord Est resti un territorio industriale vivo e attrattivo, è tempo di aggiornare la nostra idea di impresa. Gli Stati Uniti, con tutti i rischi che oggi rappresentano, possono diventare il banco di prova di questo cambiamento. Purché lo si affronti non solo con strategie difensive, ma con una visione industriale capace di saldare le radici produttive del territorio con le nuove traiettorie della globalizzazione tecnologica.
*Trinity College& Fondazione Nord Est
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