I distretti non bastano più: scuole e ricerca per ripartire

In questa fase di incertezza e profonda trasformazione produttiva è crescente l’ansia sul futuro dei nostri distretti industriali, che hanno rappresentato negli ultimi cinquanta anni non solo la forza, ma anche l’identità della nostra industria e dei territori più dinamici.
Già nei primi anni Settanta si erano palesati i limiti del miracolo economico italiano. La crescita tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta era stata così rapida da essere definita che veniva definita “miracolo”, qualcosa di inspiegabile e magico. In verità il fenomeno era ben spiegabile e ripeteva quanto avvenuto in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e quanto sarebbe poi successo in Cina. In quella zona del Paese in cui vi era stata la prima crescita industriale, il triangolo Torino, Milano, Genova, alla riapertura dei mercati nella fase postbellica e in particolare dopo il Mercato Comune, si concentrò una domanda di beni durevoli, in particolare auto, trainata da esportazioni sostenute dal basso costo della manodopera.
Questa affluiva a Torino da tutte le parti di un Paese in larga parte contadino, ben disponibile a farsi porre alla catena di montaggio. Del resto l’organizzazione del lavoro rigidamente fordista richiedeva un breve training ad ogni contadino per trasformarsi in operaio capace di reiterare le poche mansioni ripetitive, necessarie in una linea di produzione fortemente standardizzati. Quando alle esportazioni si aggiunse la domanda interna si attivò quell’accelerazione nel reddito che nei primi anni Sessanta fece individuare l’Italia come la top star della crescita mondiale. Una crescita che trasformava il Paese dalle fondamenta, spingendo a migrazioni interne che creavano per un verso frettolose metropoli e per un altro svuotavano il resto del territorio.
Un modello cristallizzato
La crisi del modello avvenne alla fine degli anni Sessanta quando quelle stesse fabbriche, la cui rigida organizzazione era stata il fattore di successo, divennero una trappola nella fase di saturazione della domanda e al contempo dell’ulteriore apertura dei mercati. Del resto, proprio le catene di montaggio mostrarono tutta la loro fragilità in un momento di crescente protesta operaia. In quel passaggio in varie parti d’Italia si avviò un percorso alternativo, basato sulla riscoperta delle competenze diffuse sul territorio, ma rifocalizzate su specifici ambiti di produzione, di cui però esaltare proprio la flessibilità, sia in termini quantitativi che qualitativi, in una fase instabile e di trasformazione sociale.
Molti economisti intervennero in quegli anni a testimoniare che quel che stava succedendo non era un arretramento ma una forma di produzione più “smart” - diremmo oggi - per rispondere ad un cambiamento strutturale nella domanda globale di beni di alta qualità. Fra tutti il venerabile Giacomo Becattini ci ricordò che già l’economista inglese Alfred Marshall a inizio secolo aveva definito “distretti Industriali” quelle aree-sistema, in cui imprese autonome condividono le diverse fasi di un ciclo di produzione, in una continuità in cui storia, cultura, reputazione costituivano il legame che nella fabbrica fordista era dato dalla rigida organizzazione.
Da allora furono più di duecento i distretti industriali censiti in Italia, contribuendo a dare sostanza a un modello conosciuto nel mondo come “made in Italy”. Tuttavia se la regola di fondo è quella che Adam Smith a fine Settecento aveva chiarito nell’evidenza che l’organizzazione della produzione deve essere coerente con l’estensione del mercato a cui si rivolge, è legittimo domandarsi, dopo cinquanta anni, cosa siano oggi i distretti industriali e se non siamo già oltre la santificazione che ne abbiamo fatto, cristallizzandoli in un modello che ormai è già nel passato.
Il ruolo delle imprese leader
Innanzitutto il mercato. Quando emerse il modello dei distretti industriali l’Europa era divisa dal Muro di Berlino e la Cina un mondo chiuso. Ancora nel 2000, a metà corsa, sui circa 41 milioni di auto prodotte nel mondo, il 3,4% si realizzava in Italia, più del doppio di quanto si metteva insieme in Cina. Dopo poco più di vent’anni su una produzione mondiale prossima ai 60 milioni di veicoli la quota italiana è scesa all’0,8%, la cinese salita al 38.
In questo tempo il mercato di ogni bene si è ampliato, divenendo globale e nel contempo segmentato, lasciando a noi spazio nella fascia più alta, che comprende sempre più anche i servizi di accompagnamento. Nel frattempo la rivoluzione digitale e della logistica ha riproposto il tema della dimensione dell’impresa, che alle competenze produttive ora deve aggiungere conoscenza dei mercati globali ed una pratica continua di innovazione in settori diversi da quelli propri.
Se dunque l’impresa deve approfondire le proprie competenze per mantenersi innovativa, deve trovare nel distretto quelle competenze industriali, scientifiche, digitali, comunicative che sono cruciali per la competitività. Qui è il vero nodo: non tutti i distretti sono in grado di trasformarsi in modo adeguato, garantendo la crescita di quei servizi, di quelle conoscenze, di quelle relazioni necessarie per la crescita di imprese. E quindi sono sempre più le imprese che, pur rimanendo ben radicate a livello locale, oggi reinternalizzano queste competenze e costituiscono loro academy per formare queste loro capacità.
Diviene allora cruciale ripensare i distretti, come già sta avvenendo, ponendo al centro istruzione e ricerca, le scuole ed in particolare quelle tecniche, le università e l’ampia varietà di strutture che possono essere messe in campo per sostenere i processi di trasformazione collettivi, in cui le imprese leader divengono parte di modelli di formazione continua, che fanno da ossatura a questo ridisegno del territorio.
Gli incentivi improvvisati
Le molte esperienze in Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e in quella parte della Lombardia che guarda ad oriente offrono già una vasta gamma di percorsi di cambiamento del territorio e delle produzioni. Ma non sono ancora diventate patrimonio comune e soprattutto traino per un Paese che di fronte alle difficoltà sembra frammentarsi, credendo di risolvere tutto con incentivi o detassazioni improvvisate.
Parlando di distretti, bisogna partire dal basso, dal territorio, vederne la ricchezza e da qui andare oltre, per costruire una nuova economia aperta e competitiva. Questo sforzo deve essere però condotto principalmente nelle regioni del Nord Est, dove rimane ancora un solido tessuto produttivo, una robusta rete di università ed ora anche di centri di ricerca di livello europeo, ma più forti che altrove si sentono i rischi di un degrado che potrebbe minare il nostro futuro.
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