Enrico Polegato: "Con papà c'è rispetto, ma faccio scelte mie"

«Potrei dire che l’impresa e la cultura d’azienda era in casa sin da bambino. La respiravo...»
Comincia con una battuta Enrico Moretti Polegato, 35 anni, l’uomo che ha rilanciato la Diadora, acquisita nel 2008 dalla Lir, holding di papà Mario e della famiglia Polegato, dopo che una cordata l’aveva a sua volta salvata dal concordato, a fine anni ’90: l’epilogo (sventato) del marchio creato da Marcello Danieli nel 1948 a Caerano, e poi dai tre figli.
Enrico Moretti vive a Venezia, per scelta, con moglie e due figlie, Maria Teresa e Caterina. Il figlio di mister Geox, l’uomo della scarpa che respira divenuta fenomeno globale, è un testimonial d’eccezione per la questione del passaggio di testimone nelle imprese di Nordest, dai padri della saga ai figli dell’era 2.0 e della crisi globale. Inutile girarsi attorno: figlio di, a Nordest, è più complicato che altrove. La storia non è antica, i padri sono leggende, ammirati dal mondo per aver inventato un modello dal nulla, o meglio da idee, genio e lavoro. Tu arrivi dopo, e scali l’Everest... Poteva la questione della trasmissione generazionale esplodere altrove, quando l’anagrafe ha scandito il passaggio del quarto di secolo, magari abbondante?
«Il mio è stato un iter assolutamente normale: ho fatto l’Einaudi, istituto tecnico commerciale a Montebelluna, poi giurisprudenza a Padova, e mi sono laureato a 24 anni».
Niente economia e commercio a Venezia?
«Ho voluto avere una formazione completa, ho pensato che legge mi avrebbe assicurato una visione ampia su tutte le tematiche aziendali. Ho scelto diritto commerciale, dopo la laurea ho fatto pratica per due anni e ho sostenuto l’esame di Stato».
Avvocato e imprenditore, Polegato.
«Penso ancora oggi sia stata una scelta giusta. E c’è un altro ambito che ho curato, al di fuori dell’ambito strettamente scolastico: le lingue, ne parlo cinque».
Sta dicendo che la trasmissione generazionale è innanzitutto formazione?
«Sono partito dalla costruzione del mio percorso scolastico. Alla fine ho deciso: non avrei fatto l’avvocato. Nel frattempo mi ero anche sposato con Giulia, una compagna di studi, ho voluto cominciare a lavorare in Geox, ufficio legale. Poi si è aperta la possibilità di Diadora».
Opportunità. E al tempo stesso una deviazione che consentiva un percorso diverso. L’autonomia nella continuità.
«Amo dire che sono rimasto nel solco ma su un binario diverso. Mi sono delocalizzato, ecco».
Ha sempre detto che Diadora per lei è stata una scelta forte, non solo economica.
«Un’occasione grande, per tre ragioni. La prima imprenditoriale, per le sue potenzialità. La seconda sentimentale, è un marchio carico di storia e di fascino. La terza personale, perché mi dava l’opportunità di entrare nel settore della calzatura sportiva da un’angolazione speciale, piccola ma importante».
In realtà la saga non solo sportiva di Diadora nasce prima che lei nascesse.
«È un marchio che ha appassionato e si è fatto amare da più di una generazione. Chi può dimenticare Borg? E poi calcio, atletica pallavolo, automobilismo, ciclismo, scherma, basket. Con tutti i più grandi campioni, E poi era storia del nostro territorio, l’azienda era nata a Caerano nel 1948, ed era stata all’avanguardia nelle sponsorizzazioni, nell’uso dei testimonial, nella ricerca».
Nel 2009 lei ne assume la presidenza.
«E nel 2010 nasce la primogenita Caterina. Ho fatto sei anni, credo con risultati lusinghieri, negli anni della crisi, con una crescita a doppia cifra (+11,14% fra 2014 e 2015). L’azienda è tornata un riferimento nel settore. Possiamo dire di aver completato l’opera di salvataggio. E dal 2015 ho assunto anche la carica di ad».
Lei dice: «Diadora è nata per vincere ed innovare».
«È una storia italiana di successo fatta di persone che hanno sempre creduto nei valori autentici dello sport. Valori che sono anche le coordinate per le sfide sul mercato. E non parlo solo di risultati economici; nel 2015, abbiamo assunto 35 persone, nei primi sei mesi del 2016 altre 16 persone, con 10 posizioni ancora aperte».
E con papà Mario qual è il rapporto, al di là del piano strettamente familiare?
«Ottimo. Gli sono grato sul piano personale perché ha capito che per me era necessaria un’esperienza indipendente, che verificasse le mie capacità. E poi si parla, ci si confida sui problemi dell’economia».
Ma siete davvero... colleghi o resta il rapporto generazionale padre-figlio?
«Non ci sono sinergie dirette, si parla dei problemi, ci si scambiano idee. A mio avviso è un quadro rispettoso e al tempo stesso fruttuoso nello scambio».
Un modello esportabile, che può essere un riferimento per il Nordest in cerca di eredi.
«Non credo. Per me è stato fondamentale l’aver potuto costruirmi un percorso in linea con le mie inclinazioni e le mie doti, tagliato su di me prima ancora che sulle esigenze della famiglia».
Si sente di dare qualche consiglio, magari, ad altri giovani figli di che si apprestano a raccogliere il testimone?
«No. Né voglio entrare nelle gestioni aziendali. Certo reputo fondamentale la formazione, la flessibilità, il conoscere le lingue, aver fatto una gavetta, una professionalità, idee. A prescindere dal nome, non si è solo “figli di”».
La pressione, il confronto, i peso dei padri, non solo nell’economia, possono essere alla volte insostenibili. I casi si sprecano.
«Attenzione, non è assolutamente detto che i figli debbano fare gli imprenditori, o seguire le orme paterne. Ma non si può nemmeno arrivare a 30 anni a dover decidere cosa si vuol fare. E anche l’azienda, diciamo, si deve porre il problema della seconda generazione, nel mio caso un coinvolgimento c’è stato, molto proficuo».
Ma il passaggio generazionale è ancora uno scoglio?
«Non sarei drastico. Le storie sono diverse, ci sono dimensioni differenti, storie più patriarcali, altre più manageriali. In genere, il successo di un’azienda non è mai legato a una persona sola. E attenti a generalizzare: non è mai tutto merito, o mai tutto colpa».
Nel mito Giove sconfigge il padre. A Nordest, la seconda generazione deve metaforicamente fare lo stesso?
«Io distinguo i piani. Sulle tematiche della Diadora, ripeto mi confronto con i manager, tendenzialmente sono portato a condividere prima di decidere la soluzione. Su questioni più generali, meno specifiche, mi confronto volentieri con mio padre».
Fuori dall’azienda, cosa fa Enrico Moretti Polegato?
«Ho la passione per le lingue, che sono un grandissimo segno di apertura verso il mondo. E poi corro, sono un runner, mentre il cinema soddisfa la mia parte creativa».
Le capita di confrontarsi con altri esponenti della seconda generazione?
«Le occasioni di confronto non mancano, ma sono legate a incontri professionali. I miei amici sono soprattutto i miei compagni di università».
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