Venezia82, Barbera: «Vi racconto la mia Mostra»

Il direttore: «Il cinema è uno strumento di conoscenza e di pensiero critico. Sa ancora entrare nella nostra realtà quotidiana

Michele Gottardi
Alberto Barbera, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia
Alberto Barbera, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia

E’ un Alberto Barbera abbastanza tranquillo, anche se per scaramanzia non ostenta sicurezza, quello che incontriamo alla vigilia dell’apertura della Mostra. La macchina è collaudata, coordinata come sempre da Angela Savoldi e da uno staff attivo da mesi, che supporta il direttore artistico giunto alla sua 17a Mostra.

Direttore, a scorrere il programma di Venezia 82, si scorge un’attenzione molto forte per il cinema del reale, parrebbe una sua predilezione già emersa nelle scorse edizioni.

«Non è solo un mio interesse specifico, ma è il cinema che ha un ritorno di attenzione verso la contemporaneità. Questo è dato sicuramente dall’aumento di conflittualità, non solo le due più eclatanti tragedie di Gaza e dell’Ucraina, ma anche dalle altre situazioni di crisi sparse nel mondo. I registi, per fortuna, avvertono la responsabilità di prendere posizione verso i problemi di oggi, anche senza schierarsi in modo netto, ma semplicemente decidendo di portarli sullo schermo. Il cinema opera una mediazione attraverso la riflessione degli artisti: in questo modo conferma la straordinaria capacità di essere strumento di conoscenza e di pensiero critico».

Ci saranno manifestazioni per Gaza, la Biennale ha previsto interventi come per l’invasione dell’Ucraina?

«No, non ci saranno interventi istituzionali da parte della Biennale, ma sono già previste manifestazioni ufficiali (l’Anpi ne ha annunciata una per il 30 agosto, ndr), altre forse se ne aggiungeranno quando verrà proiettato The voice of Hind Rajab della tunisina Kaouther Ben Hania, ma spero rimanga tutto circoscritto nel giusto diritto morale di manifestare in questo momento».

Tra i temi della Mostra emerge la paura, accreditata dalla situazione politica, ma anche da un certo gusto surreale: c’è una fuga nel fantastico?

«In realtà l’unico mostro è il Frankestein di Guillermo del Toro, certo poi ci sono altri mostri, politici o criminali, da Putin ai guerrafondai della Bigelow (A House of Dynamite, ndr), ma, ripeto, a entrare con prepotenza è la realtà quotidiana, a tutti i livelli».

I fuochi d’artificio della prima settimana vanno un po’ calando nel finale: si sono fatti avanti altri festival?

«Sì, molti film dopo Venezia andranno a Toronto e soprattutto a Telluride, in Colorado. Però anche nella seconda settimana avremo film importanti, a cominciare dai tre italiani Pietro Marcello (Duse), Leonardo Di Costanzo (Elisa) e Franco Maresco (Un film fatto per Bene. Bravo Bene!)».

Parliamo allora degli italiani, quest’anno sono cinque in concorso, pochi o tanti? Ce n’erano altri?

«Intanto diciamo che questi cinque sono immancabili, nel senso che non potevano non essere in concorso. Si discute se Venezia debba dare maggior visibilità al cinema nazionale, ma avviene lo stesso anche a Cannes col cinema francese. Inoltre direi che nel complesso gli italiani sono più forti che in passato. E molto vari tra loro. E non tiriamo fuori la storia che non ci sono registe: non ce ne sono di italiane, ma in concorso sono il 30 per cento».

C’è attesa per il film su Carmelo Bene di quel regista che il presidente Buttafuoco ha definito il “sommo Maresco” …

«In realtà Carmelo Bene è un pretesto che Franco Maresco utilizza per parlare di sé, è un film importante e coraggioso, che analizza la sua ossessione antica, l’incapacità di chiudere i progetti che inizia, il proprio autoisolamento dal mondo, riprende tutto quello che ha detto in questi anni, da Belluscone a La mafia non è più quella di una volta, ma lo fa in modo completo e sistematico, è già stato definito una sorte di “8 e mezzo a Palermo”».

Qualche chicca imperdibile sparsa qui e là?

«Nella sezione No Fiction ci sono documentari molto forti, da Cover-Up di Laura Poitras e Mark Obenhaus, sul premio Pulitzer Seymour Hersch, o sempre per parlare di donne, a Nuestra tierra, dell’argentina Lucrecia Martel, che ricostruisce l’omicidio di Javier Chocobar, leader di una comunità indigena del Tucumán assassinato nel 2009 per far scappare i nativi dai loro terreni. Poi c’è il Direktor’s diary di Aleksandr Sokurov, un progetto di cinque ore basato sui diari che il regista ha tenuto dal 1961 al 1995, con immagini d’epoca, film di regime, materiale di propaganda. Non perderei i due italiani del concorso di Orizzonti, Il rapimento di Arabella di Caterina Cavalli e Un anno di scuola di Laura Samani, tratto da Giani Stuparich. O la Divine comedy di Ali Asgari, che tratta della censura in Iran in chiave di commedia, e i due film con Willem Dafoe, Late Fame e The souffleur, tra New York e Vienna». —

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