“The Voice of Hind Rajab” in vantaggio per il Leone d’Oro, tutti i rebus sulle premiazioni
Quest’anno la Giuria avrà un compito molto complicato, difficile immaginare per “Hind Rajab” un premio minore

La Mostra del Cinema di Venezia 82 passerà alla storia non per una immagine, una sequenza o un virtuosismo di macchina. Ma per una voce su uno schermo nero. Le suppliche autentiche di una bambina di sei anni che implora salvezza, intrappolata in un’auto accanto ai cadaveri dei parenti, sotto i colpi dell’esercito israeliano a Gaza.
La voce di uno dei tantissimi innocenti che muoiono quotidianamente nella Striscia e che, grazie al cinema, ora squarcia il silenzio per arrivare a tutti, ovunque. “The Voice of Hind Rajab” della regista tunisina Kaouther Ben Hania è, all’unanimità (critica e pubblico, e anche per noi), il Leone d’oro di quest’anno.
Impossibile chiudere gli occhi e, soprattutto, tapparsi le orecchie, di fronte ad una realtà che grida, anche dalla passerella della Mostra, di essere raccontata e che impone di prendere una posizione. Quelle sconvolgenti registrazioni audio, quasi insostenibili, non possono essere ignorate.
È un film che non può essere valutato solo sul piano estetico e artistico per quanto “The Voice” sfugga, anche, alla facile obiezione di essere il favorito esclusivamente per ragioni politiche: quella voce, infine, innerva una potente cornice di “finzione” per diventare lacerante rappresentazione dell’imperdonabile impotenza dei singoli, dei governi, dell’umanità tutta.

Quest’anno la giuria presieduta da Alexander Payne avrà un compito delicatissimo, come non accadeva da tempo: difficile immaginare un premio minore per “The Voice”; ancora più problematico preferirgli un altro film. Stasera, in Sala Grande (a partire dalle 19), l’emozione sarà palpabile. La realtà (non solo quella palestinese) ha frantumato lo schermo: e le nostre preferenze si sono accordate con questo impetuoso ritorno del cinema del reale, sia in chiave di genere, sia nelle sue corde più poetiche o minimaliste o persino grottesche.
Il thriller politico di Kathryn Bigelow (A House of Dynamite), oltre a essere grande cinema, sbatte in faccia all’America l’illusoria convinzione che ci si possa difendere dall’incubo atomico, “quando” (e non “se”), in un futuro che sembra già domani, una testata nucleare sorvolerà le nostre teste. Per noi, “A House of Dynamite” meriterebbe un Gran Premio della Giuria o il riconoscimento alla regia, per come Bigelow gira un racconto serratissimo da molteplici punti di vista.
Il pericolo atomico non è l’unico a fare paura. C’è anche un mercato del lavoro sempre più osceno, in cui anche la dignità è oggetto di una continua asta al ribasso. Per questo, la storia dello scrittore che tocca con mano l’indigenza nel film di Valérie Donzelli (À Pied d’Oeuvre) e quella di un uomo licenziato all’improvviso nel più sarcastico (ma non per questo meno raggelante) “No Other Choice” del coreano Park Chan-wook, ci hanno conquistato.
Anche per merito dei due protagonisti maschili che vorremmo vedere premiati con la Coppa Volpi: Bastien Bouillon e il “Front Man” della serie “Squid Game” Lee Byung-hun, ai quali aggiungere, tra i preferiti, la maschera disillusa del potere incarnata da Paul Dano, spin-doctor di Putin nel film di Olivier Assayas “Il Mago del Cremlino”. Un altro pezzo di realtà che rimane impigliata sullo schermo e negli occhi, svelando il cuore nero della Russia e riflettendo sulle dinamiche di un potere che si alimenta dalla paura.
In una edizione in cui sono molte e convincenti le interpretazioni maschili (ci ha colpito anche la trasformazione di Dwayne Johnson in “The Smashing Machine” con la efficace regia, sporca e muscolare, di Benny Safdie), un’attrice svetta su tutte le altre: Valeria Bruni Tedeschi con la sua “Duse” merita la Coppa Volpi (più della dolente Barbara Ronchi in “Elisa” e di Emma Stone la cui performance illumina il modesto “Bugonia” di Lanthimos).
Della pattuglia italiana abbiamo amato anche “La Grazia” di Sorrentino in apertura (magari per un premio minore). Mentre, nell’ultimo giorno di Mostra, è arrivato il colpo di fulmine di “Silent Friend” di Ildikó Enjedi, opera seducente e contemplativa che sarebbe un peccato veder tornare a mani vuote. La solidissima scrittura di Olivier Assayas e di Emmanuel Carrère per “Il Mago del Cremlino” rivendica, a ragione, il premio per la sceneggiatura, insieme a Jim Jarmush (nel suo affresco familiare “Father Mother Sister Brother) e, ancora, alla Donzelli (con Gilles Marchand) per “À Pied d’Oeuvre”. Per il Mastroianni, i nostri preferiti si chiamano Enzo Brumm (uno dei protagonisti di “Silent Friend”), il giovanissimo Bojtorjan Barabas (in cerca di suo padre in “Orphan” di László Nemes) e la taiwanese Bai Xiao-Ying nell’unica opera prima del Concorso “Girl”.
Riproduzione riservata © il Nord Est