Il difficile equilibrio tra arte e impegno
Un binomio a volte naturale, altre volte avversatissimo. E un connubio che ha trovato proprio nella Mostra veneziana una sede naturale, nel corso della sua prestigiosa esistenza

Arte e impegno politico: un binomio a volte naturale, altre volte avversatissimo. E un connubio – a corrente (e opinione) alternata – che ha trovato proprio nella Mostra veneziana una sede naturale nel corso della sua prestigiosa esistenza.
Un grande contenitore nel quale si sono ritrovati mescolati, di volta in volta, il meglio delle opere della settima arte, mondanità e glamour (tra red carpet, passerelle di vario genere, ospiti internazionali e feste) e uno specchio (talvolta perfino anamorfico) del tempo presente da cui discendono riflessioni di tipo anche politico.
Peraltro, questo è avvenuto sin dalle sue origini, intrecciate a doppio filo con il regime fascista, a partire dalla “Coppa Mussolini” sostituita dal Leone d’Oro – un legame che il medesimo governo Meloni, alla ricerca di una (contorta e problematica) egemonia culturale cerca di ribadire tra reticenze, passaggi allusivi e uscite esplicite estremamente discutibili. E poi le contestazioni del Sessantotto in una Venezia molto politicizzata a sinistra nei suoi intellettuali e nelle sue istituzioni ed elaborazioni culturali.
E, ancora, lo scontro, nel 1988, intorno a L’ultima tentazione di Cristo, il film di Martin Scorsese ispirato ai Vangeli apocrifi. Ma gli esempi che si possono portare sono tantissimi perché, per l’appunto, il festival cinematografico costituisce una straordinaria superficie riflettente di quanto avviene nella società in un dato momento.
E, dunque, la politica è davvero consustanziale e connaturata all’evento veneziano. E, al medesimo tempo, per rispolverare una querelle “eterna”, nell’arte convivono una dimensione di scelta e schieramento politico e una puramente estetica e programmaticamente estranea alla presa di posizione sugli affari pubblici del proprio tempo, entrambe pienamente e assolutamente legittime (e questo non è un giudizio “salomonico” né, men che men, “doroteo”…).
L’82esima edizione della Mostra internazionale d’Arte cinematografica che si è appena conclusa – con la Biennale presieduta da un intellettuale governativo molto stimato dalla presidente del Consiglio, ancorché con una storia di predilezioni anche autonome e indipendenti, come Pietrangelo Buttafuoco – è stata anch’essa spiccatamente politica, attraversata innanzitutto dalla “questione di Gaza” e dalle condanne nei confronti del governo di Netanyahu.
Come hanno mostrato la manifestazione proPal e l’appello «contro il genocidio» di Venice4Palestine di artisti e attivisti – con l’incidente di percorso, chiamiamolo così, sconfessato anche da alcuni degli stessi firmatari, della richiesta di rifiutare l’invito a Gal Gadot e Gerard Butler per il loro sostegno al governo israeliano – e, da ultimo, l’attrice Benedetta Porcaroli che ha dedicato il premio ricevuto nell’ambito della sezione Orizzonti alla Global Sumud Flotilla. Prendere una posizione forte e netta non significa, infatti, che ne debba discendere un’inaccettabile forma di censura.
Ecco, le decisioni della Giuria del Lido, invece, sembrano essere state sensibili alla ricerca di un equilibrio e, soprattutto, alla finalità di evitare polemiche: così si spiegherebbe il secondo posto al film palestinese The Voice of Hind Rajab (l’«impegno»), mentre il Leone d’oro è andato a Father Mother Sister Brother del genio del cinema indie Jim Jarmusch (l’«arte pura»).
Riproduzione riservata © il Nord Est









