Batteri liberati dallo scioglimento dei ghiacci: studio sugli effetti
La campagna alle isole Svalbard dell’Ogs di Trieste e Stazione Dohrn: microrganismi fino al mare, conseguenza della fusione. Il ricercatore Bensi: «Acque più calde portano con sé specie abituate a latitudini più basse, modificando l’intero ecosistema»

I ghiacciai artici potrebbero custodire batteri in grado di vivere in condizioni estreme. Con lo scioglimento accelerato delle calotte polari, questi microrganismi – inclusi potenziali patogeni e batteri antibiotico-resistenti – potrebbero venire rilasciati nell’oceano, aprendo nuovi scenari per l’ecosistema marino ancora tutti da esplorare.
A 79°N, a soli 1.200 km dal Polo Nord, nelle remote isole Svalbard, un team di ricercatori italiani sta studiando questo fenomeno ancora poco conosciuto. La campagna scientifica, appena conclusa a Ny-Ålesund, ha visto protagonisti scienziati dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs) e della Stazione zoologica Anton Dohrn (Szn).
«Conduciamo studi sulla variabilità a lungo termine in alcune zone dell’Artico, in particolare alle Svalbard, utilizzando sistemi osservatori che raccolgono dati anche durante l’inverno», spiega Manuel Bensi, oceanografo dell’Ogs coinvolto nel progetto.

«A livello globale abbiamo notato che in questa regione sta avvenendo un fenomeno chiamato atlantificazione, con conseguente fusione del ghiaccio marino e terrestre». L’atlantificazione, uno dei cambiamenti più significativi nell’Artico contemporaneo, è quel processo attraverso cui l’oceano Artico diventa progressivamente più caldo e salato, a causa della crescente penetrazione dell’acqua atlantica verso nord. Queste acque più calde si mescolano con quelle fredde artiche, riducendo la formazione di ghiaccio marino e compromettendo la capacità dell’Artico di generare acque dense, fondamentali per alimentare la normale circolazione termoalina globale.
«Questa fusione ha importanti conseguenze sull’ecosistema, in particolare per il rilascio di microrganismi e batteri, trasportati dalle acque di scioglimento fino al mare», continua Bensi. La ricerca, finanziata dai programmi internazionali Hibernate e HybernArtic, mette insieme competenze oceanografiche e microbiologiche per rispondere a interrogativi cruciali: quali microrganismi si celano nei ghiacciai artici? Come sono sopravvissuti in un ambiente tanto estremo? E soprattutto, possono sopravvivere nell’oceano?
«Abbiamo identificato alcuni punti nel fiordo per campionare l’acqua di mare, oltre a due ghiacciai che in vent’anni hanno subito un ritiro molto marcato», spiega Bensi. «Supponendo un grande rilascio di acque dolci nell’oceano, abbiamo prelevato campioni d’acqua marina, carote di ghiaccio e neve superficiale per vedere il parallelismo tra comunità batteriche in ghiaccio e neve e quelle in mare».
L’obiettivo è verificare se batteri patogeni e con resistenza agli antibiotici possano sopravvivere anche nell’acqua di mare, la cui temperatura in questa regione è aumentata di uno-due gradi rispetto a 15-20 anni fa, creando «condizioni potenzialmente più favorevoli a mantenere in vita alcuni tipi di microrganismi», sottolinea l’oceanografo.
Le condizioni di lavoro sono state estreme: temperature tra i –25°C e –15°C, con punte di –40°C considerando il vento, che hanno reso più difficile il campionamento. I campioni, mantenuti a –20°C, arriveranno in Italia entro l’estate e saranno analizzati nei laboratori della Stazione Zoologica a Messina.
«I colleghi utilizzeranno un approccio colturale per investigare la frazione microbica di potenziali batteri antibiotico-resistenti o patogeni presenti nei campioni», precisa Bensi. «Una maggiore estensione di aree marine non coperte dal ghiaccio implica un maggiore scambio tra oceano e atmosfera, sia di calore che di CO2, aumentando l’acidificazione degli oceani anche in zone polari», osserva l’oceanografo.
«Inoltre, acque più calde portano con sé specie marine abituate a latitudini più basse, modificando gradualmente l’intero ecosistema». Se i risultati confermeranno la presenza di batteri patogeni e antibiotico-resistenti, sarà necessario estendere le indagini ad altre zone polari sensibili alla fusione dei ghiacci. «È necessario continuare a investigare queste aree chiave per comprendere meglio fenomeni le cui implicazioni rimangono ancora da definire», conclude Bensi.
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