Rocce più fragili e più muschio, il cambiamento climatico rende più instabili delle Alpi Giulie
L’escursionista Roberto Mazzilis salvato dall’elisoccorso dopo il distacco di un pilastrino sulla via Lomasti; esperti confermano il ruolo del riscaldamento del permafrost

Il riscaldamento climatico pare che cominci a manifestare alcune delle sue conseguenze anche sulle pareti di roccia delle Alpi Giulie. Ne è convinto, già da alcuni anni, il fuoriclasse dell'alpinismo Roberto Mazzilis, apritore di centinaia di nuovi itinerari tra le pareti delle Alpi Carniche e delle Giulie, nonché conoscitore e ripetitore di famose vie di alta difficoltà. Tra queste c'è la via Lomasti al Piccolo Mangart di Coritenza, aperta nel 1978 da un altro fuoriclasse nostrano, il pontebbano Ernesto Lomasti, poi compagno di cordata dello stesso Mazzilis.
Lo scorso 19 settembre il forte scalatore tolmezzino si trovava impegnato sulle ultime lunghezze di corda più difficili della via Lomasti a quota 2200 metri quando, durante un passaggio obbligato su cui aveva posato mani e piedi, l'intero pilastrino di roccia si è staccato facendolo cadere una ventina di metri più in basso. Fortunatamente Mazzilis, alla sua terza ripetizione della via – la prima fu 46 anni fa – aveva posizionato a otto metri dal punto in cui si è caduto l'ultimo chiodo di sicurezza, che ha fatto sì che il compagno di cordata, un ventenne conterraneo, lo potesse bloccare tramite la corda a cui entrambi erano legati.
Il compagno è stato colpito da pezzi di roccia andati in frantumi, Mazzilis si è procurato una ferita alla mano e una frattura al tallone. I due alpinisti, dopo aver provato a ipotizzare una discesa in autonomia, hanno chiesto aiuto al Nue112, che ha inviato sul posto l'elisoccorso regionale con a bordo pilota, tecnico verricellista e tecnico del soccorso alpino, i quali hanno eseguito un'operazione di salvataggio a regola d'arte, al centimetro. Con una verricellata di ottanta metri, necessaria per superare il tratto di parete sporgente dove Mazzilis era caduto, il tecnico del soccorso alpino è stato calato sulla sosta, dove i due alpinisti si erano fatti trovare già pronti per il recupero.
Il tecnico si è sganciato dal verricello, ha verificato che l'imbracatura di Mazzilis fosse integra e lo ha prelevato con sé. La stessa cosa ha fatto con il secondo di cordata poco dopo.
«Il mio sesto senso – dice Mazzilis – questa volta mi ha tradito; ma ormai le condizioni delle pareti Nord delle Giulie sono cambiate. Dove ci sono fessure, è sempre presente terra e muschio che rendono la roccia più soggetta a fratture e distacchi anche di grande entità. Negli ultimi anni l'ho notato spesso, percorrendo vie che conosco da decenni e che ricordo molto diverso da oggi».
L'esperienza empirica di Mazzilis è in qualche modo confermata da chi si occupa da molti anni di clima e criosfera, come il glaciologo Renato R. Colucci, ricercatore dell'Istituto di scienze polari del Cnr e referente italiano per la International Permafrost Association, nonché soccorritore alpino, che, da quindici anni a questa parte, misura la temperatura della roccia delle Giulie sia in cavità che in esterno.
«Quella di Mazzilis – dice Colucci – è un'ipotesi plausibile, ma andrebbe verificata nel dettaglio: ci vorrebbero studi geo-meccanici ad hoc ad esempio.
La sua testimonianza non si scontra con quanto emerge dalle misurazioni. Trent'anni fa la quota media dello zero termico nelle Alpi Giulie era 2370 metri, oggi si è alzata di almeno 400 metri. Questo porta allo scongelamento del permafrost in roccia, come abbiamo verificato in una grotta del Monte Leupa (Gruppo del Canin), dove a pochi metri dall'ingresso abbiamo registrato la sua scomparsa. Si è passati da una roccia che era sempre sottozero, anche in estate, ad un congelamento solo stagionale e non più permanente».
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