Roberto, la malattia e la richiesta di suicidio assistito: «Ormai spero di morire nel sonno, questa non è vita»

Roberto ha un tumore cerebrale: «Ho ottenuto il via libera in Svizzera. Sono pronto ad andare in tribunale, per avere il consenso a Padova»

Laura Berlinghieri
Una manifestazione dell'associazione Luca Coscioni
Una manifestazione dell'associazione Luca Coscioni

Roberto, quando si decide di morire?

«Quando la vita non è più soddisfacente. Quando non si riesce più a fare le cose che si desiderano. Quando si soffre molto. Quando le giornate sono pesanti e non riesci a viverle serenamente. Quando ogni sera speri di morire nel sonno e la mattina non hai la voglia di alzarti dal letto».

E per lei questo momento quando è arrivato?

«È arrivato diverso tempo fa. Ma poi ci sono state delle cose che mi hanno aiutato a tenere duro. E quella del suicidio assistito, in Italia, non è una pratica facilmente accessibile; così come non lo è nemmeno in Svizzera. Ma ora chiedo di poter scegliere di morire».

Aveva fatto richiesta per la prima volta nel 2019, in una clinica di Zurigo. A sei anni da quel primo diniego, adesso Roberto – padovano, 67 anni, da 19 affetto da un tumore cerebrale – ha ricevuto un sì. «Ma io voglio morire a casa mia» dice, in questi ulteriori giorni di esami: per convincere anche la sua azienda sanitaria, l’Usl Euganea, che per lui la vita non è più vita. «È giusto che ci sia un controllo esterno delle condizioni del malato» dice. Nel suo caso, il rifiuto è arrivato dopo cinque mesi di attesa – per questo, l’allora presidente Zaia aveva mandato gli ispettori nell’Usl – e per la mancanza di un requisito: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

A che stadio si trova la malattia, ora?

«So del tumore da quasi vent’anni. Ma, per più di dieci, non mi ha dato fastidi. Le cose sono cambiate nel 2018. E da allora continuo a peggiorare».

Ci può spiegare?

«Ho un mal di testa continuo: tutti i giorni, tutto il giorno. Crisi epilettiche. Gusto, olfatto e udito funzionano male. Dolori agli arti, in particolare ai piedi. Problemi di equilibrio e di deambulazione. Devo camminare sostenendomi con un bastone, ma nemmeno questo mi impedisce di cadere».

La commissione medica dell’Usl Euganea, nel respingere la sua domanda, le ha “contestato” il fatto che non dipenda da trattamenti di sostegno vitale...

«Pretendere la presenza di questo requisito significa volere che le persone, prima di chiedere il fine vita, abbiano perso la propria dignità».

Lei ha detto che vuole morire a casa sua. Perché ha fatto domanda anche in Svizzera?

«L’avevo fatta una prima volta nel 2019, ma non era stata accolta. Nemmeno alla Dignitas è una concessione che viene fatta con leggerezza. Io vorrei andarmene a casa mia, ma ho paura che l’azienda sanitaria non me lo concederà, se non all’esito di azioni legali. E allora, intanto, ho presentato di nuovo domanda in Svizzera, dove ho ricevuto il semaforo verde, dato che le mie condizioni negli ultimi anni sono peggiorate molto».

I suoi familiari come hanno reagito alla sua decisione?

«Sicuramente non ne sono felici, però capiscono le ragioni che mi spingono a tanto».

La società è più avanti della politica?

«Non c’è dubbio. Il 70% degli italiani è favorevole al fine vita. E invece la classe politica da anni chiacchiera, senza trasformare la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 in una legge ragionevole. Una classe politica che non si occupa di un tema così importante è una classe politica assolutamente inadeguata».

Prima della malattia, com’era la sua vita?

«Piena, ricca. Ho avuto esperienze manageriali in diversi settori, mi sono occupato di agricoltura. E ho sempre avuto la passione per la pittura e per la scrittura: ho anche pubblicato due libri. La malattia mi ha tolto pure questo. Parlo a fatica, mi stanco subito. Negli ultimi dodici mesi sono riuscito a dipingere una sola volta. Ho continuato a scrivere, sì, ma con difficoltà».

Si sente solo?

«I rapporti con gli amici si sono diradati, perché io non voglio imporre il mio stato agli altri. Se una persona ha voglia di chiamarmi, per parlare, ne sono felice. Ma non sono certo io a chiamare gli altri per dire come sto. Li capisco, non tutti sono in grado di interagire con una persona che sta male. Non tutti sono in grado di dialogare con la sofferenza».

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