Contarello e i suoi mille mondi
Scrittura, regia, autobiografia, incanto. L’amicizia con Paolo Sorrentino, una certa idea di musica. Esce “L’infinito”, opera di sorprese molteplici


Si intitola “L’infinito” ed è il (quasi) esordio alla regia (prima c’è stato il documentario “Parole. Operetta per voce e piano”) dello sceneggiatore padovano Umberto Contarello che lo ha scritto insieme a Paolo Sorrentino (anche produttore del film) e che è stato presentato in anteprima in concorso al Bif&st di Bari.
È la storia, in un bianco e nero atemporale (la fotografia è di Daria D’Antonio), di uno sceneggiatore aggrappato ai successi del passato (ha vinto anche un Oscar) che si trova a fare i conti con un presente nostalgico e solitario. E, soprattutto, con l’“assenza” di una figlia con la quale vorrebbe ricucire il rapporto. Inevitabile chiedersi, per chi conosce Umberto Contarello, se “L’infinito” sia, in tutto o in parte, autobiografico. A questo interrogativo, da elusore professionale di domande – come lui stesso si definisce – l’autore chiama in causa Emmanuel Carrère e quel particolare modello letterario che sigla un patto con il lettore/spettatore.
Contarello, qual è il patto?
«È quello per cui all’inizio del film offro degli elementi (il protagonista si chiama Umberto come me, fa il mio identico lavoro, abita nella mia stessa città) che consentono di stabilire il massimo grado di plausibilità. Ma, allo stesso tempo, permettono, poi, di imboccare una strada molto libera per il racconto, evitando la trappola della verità. Questo film si permette, insomma, di fluire come acqua sporca, galleggiando tra plausibilità ed estrema implausibilità. Per me è importante che lo spettatore venga sorpreso ad ogni scena, non deve essere preparato a ciò che avviene il minuto dopo. Questo continuo sbandamento è l’autentica essenza del film».
In molti, però, vedranno lei nel protagonista …
«Mi interessa di più sapere cosa arriverà ad un pubblico che non mi conosce, che non mi ha mai visto nemmeno in cartolina. Perché è naturale che il giudizio, per gli altri, si restringe alla dinamica “qui se tu, qui, invece, no”. Solo da uno spettatore neutro capirò se sono riuscito a essere un tipo e non, semplicemente, uno che si conosce».

Come è stato scrivere il film con Paolo Sorrentino?
«Tra noi si rinnova ogni volta il mistero rarissimo di quando due persone non devono tradurre la lingua altrui ma ne hanno una, occulta, comune; un esperanto tutto loro. Il film non nasce su una teoria esplicita. Per noi era abbastanza ovvio mettere insieme le cose più in senso musicale che narrativo, tendendo dei fili nascosti che raggiungono l’emotività in modo invisibile. A me, per esempio, non piace parlare di trama perché la stessa parola rimanda al concetto di ordire, ingannare. E io sono sempre stato uno spettatore ingenuo. Per questo ho cercato dei flussi, delle assonanze a cui abbandonarmi. Con una espressione che a me piace molto, penso che un film, per portarti via debba essere sempre “in spadina”, cioè non deve nascondere, come era proibito fare, l’arma sotto il mantello».
È vero che “L’infinito” nasce da una telefonata con Sorrentino?
«Sì, l’origine è la più estemporanea e ingenua possibile. Durante quella chiamata, io mi lamentavo e Paolo, che ha un carattere molto più solido del mio, incline alla lagna, mi ha detto: stavolta il film lo fai tu. E io ho detto di sì».

Che cos’è, allora, “L’infinito”?
«Mi piace pensare che sia come un torrente. Non che io ne abbia visti molti perché non vado in montagna, odio le salite e amo gli ascensori. Lo immagino come uno di quei corsi d’acqua che formano una pozza per poi cadere in quella successiva, mantenendo una regolarità con delle pause brevi che, pure, non interrompono il fluire. È un film su un uomo sospeso tra l’essere un sopravvissuto a un terremoto e un pugile suonato. La sua vita, a un certo punto, tende ad agglutinare, come in una matassa, i fili che ha steso come panni al sole dalla gioventù in poi. Alcuni di questi fili sono divenuti inestricabili, trasformando la matassa in un sasso».
C’è un filo più importante di altri?
«Non saprei dirlo. Sarebbe come chiedere al sopravvissuto quale è stata la causa del terremoto. Quest’uomo cerca di tornare indietro come in una specie di sogno di ricostruzione di ciò che è andato perduto. La chiglia della sua barca è un misto di ostinazione e di infelicità. Ma è, soprattutto la capacità di vivere la sparizione di un figlio, seguendo il percorso di un fiume carsico». Le piace fare il regista? «Ho ancora una salda ironia per non definirmi tale. Diciamo che avevo le idee sufficientemente chiare su ciò che non volevo fare. La mia preoccupazione era solo quella di raccontare una storia banalmente bella e, soprattutto, semplice. Mi viene in mente un episodio della vita di Parise che lo indirizzò a scrivere i “Sillabari”. Un giorno vide un bambino in un parco giochi che sfogliava un abbecedario e notò una sua frase scritta: “l’erba è verde”. Per chissà quali connessioni, Parise intuì, nella somma dell’immagine di questo bambino e della sua frase, come il racconto e la poesia siano il frutto dell’ingenuità. Quella di un giovane che ha l’iride luminescente non ancora offuscata dalla polvere della vita».
A proposito di Parise, il suo film è dedicato a Carlo Mazzacurati …
«Le dediche non hanno bisogno di spiegazione, dovrebbero rimanere un mistero. L’idea generale di questo piccolissimo film, di questo regalo, era quella di realizzare qualcosa di intimo che non sempre può essere spiegato a parole. E questa dedica non può dire tutto ciò che vorrei esprimere. Carlo era il mio migliore amico. Sono venuto a Roma con lui. Avrei tante cose da raccontargli perché per me c’è sempre, è come un fantasma buono».
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