The Who, un addio senza lacrime a Piazzola sul Brenta

La leggendaria band di Daltrey e Townshend ha scelto l’Italia per iniziare l’ultimo tour della carriera: «Siamo felici di essere tornati». Nel pubblico tanti ragazzi, un’ora e 45’ di grandi emozioni. “The Song is Over”, ma il rock è vivo

Cristiano Cadoni
Un momento del concerto degli Who all’anfiteatro Camerini di Piazzola sul Brenta (foto Nicola Piran)
Un momento del concerto degli Who all’anfiteatro Camerini di Piazzola sul Brenta (foto Nicola Piran)

La verità è che non interessa a nessuno se questo sarà o no l’ultimo tour degli Who, l’ultima volta nel nostro Paese, oggi (20 luglio) a Padova, dopodomani a Milano e tanti saluti al mito che tramonta.

The Song is Over” – titolo di questo giro finale – vale per oggi, poi si vedrà. E in ogni caso no, il rock non finisce qui, neanche quello degli Who, cento milioni di dischi venduti, dieci album diversi nella top ten inglese, otto in quella americana e tra questi alcuni autentici capolavori come “Tommy”, “Who’s next” e “Quadrophenia”.

The Who a Piazzola sul Brenta, l'inizio del concerto con "I can't explain"

Non finirà perché dalla storia non ci si congeda rapidamente, basti pensare che proprio mentre i camion di questa band leggendaria iniziano a fare chilometri in giro per l’Europa e il Nord America, nei negozi di dischi e sulle piattaforme di streaming sta per uscire il “Live at the Oval 1971”, album che ripropone un concerto indimenticabile, per chi c’era. Era peraltro l’anno di “Who’s next”, disco dal quale (traccia numero 5) è tratta proprio “The Song is Over”.

Un cerchio che si chiude, insomma, ma non vuol dire niente. La buona musica resta, quella degli Who è stata ed è buonissima.

Per “the last dance” di Roger Daltrey e Pete Townshend a Piazzola sul Brenta non c’è il tutto esaurito ma ci si va molto vicini, con qualche problema nella riassegnazione dei posti, dato che il concerto era inizialmente previsto all’Euganeo.

Età media sui cinquanta, inevitabilmente, d’altra parte stiamo parlando di un gruppo che celebra i sessant’anni di musica rock, buona parte dei quali all’insegna dell’innovazione. Ma attenzione, di ragazzi ce ne sono e pure tanti, arrivati da mezza Italia.

In giro ci sono centinaia, migliaia di band che agli Who si sono ispirate. Per non parlare delle due o tre generazioni il cui immaginario è stato rapito e musicalmente modificato da questi signori che – sempre per dare i numeri – hanno girato la boa degli ottanta.

Per vederli – per rivederli, due anni dopo l’ultimo passaggio in Italia che era stato nel 2023 a Firenze – arrivano padri con figli, famiglie intere, ragazzi appassionati di buona musica: ecco raccontata una buona fetta del pubblico che riempie l’anfiteatro Camerini.

Alle 21 e qualche minuto eccoli lì, ancora sul palco, Roger e Pete. Attaccano con l’inconfondibile giro di chitarra di “I can’t explain” e a questo punto non c’è già più traccia di polvere sul libro di storia che iniziano a sfogliare. Seguono “Substitute” e “Who are you” che dà fuoco alle polveri.

«Siamo felici di essere tornati in Italia», dice Townshend prima di far partire una tiratissima “Love ain’t for keeping”. I “ragazzi” vanno ancora forte, il sound è inconfondibile, con quelle chitarre. Sul palco – non è una sorpresa – non c’è Zak Starkey, il batterista figlio di Ringo Starr che di recente era stato escluso e poi reintegrato, ma per poco: «È più giovane di vent’anni», hanno scritto di lui Pete e Roger sul profilo Instagram ufficiale degli Who, «ha un grande futuro con la sua nuova band e con altri eccitanti progetti». Un congedo soft.

La band di questo tour è dunque composta da Simon Townshend (chitarra, mandolino e voce), Loren Gold (tastiere e cori), Jon Button (basso), Scott Devours (batteria), John Hogg (cori) e Jody Linscott (percussioni). Ed è con questa formazione che gli Who contano di completare il giro in Europa e di iniziare quello negli Stati Uniti il 16 agosto, prima tappa (di venti, in sedici città) la Florida.

L’assenza si nota poco, anche perché sono inevitabilmente Daltrey e Townshend a dividersi gli sguardi della platea, che è composta sì – perché si sta seduti – ma non trattiene rumorosi slanci di passione, peraltro apprezzati sul palco.

“Bargain” e “Seeker” aprono un meraviglioso viaggio nel tempo. Ma è su “Behind the blue eyes” che la platea si illumina di smartphone accesi. Senza sosta, “Real me”, “5: 15” e una bellissima “I’m One”. E poi ancora una sontuosa “Had enough”, con un assolo di chitarra da ascoltare a occhi chiusi e “Love Reign”, prova di forza della band.

I brani, alla fine, saranno diciannove, in un’ora e tre quarti, praticamente senza pause. Una carrellata di successi, praticamente un “all the best” con un gran finale segnato da “Baba O’Riley”, dall’irresistibile “Won’t get Fooled Again” che manda tutti a casa con molta più felicità che tristezza. “I’ll sing my song to the free, to the free”.

Se è stato un addio, non merita lacrime ma solo gratitudine.

Riproduzione riservata © il Nord Est