Rumiz con la European Spirit of Youth Orchestra. Foto Bruni
Rumiz con la European Spirit of Youth Orchestra. Foto Bruni

Lo scrittore Rumiz: «L’identità dell’Europa non si crea solo per contrasto»

L’intellettuale triestino ha ripercorso in Argentina la storia del padre con i suonatori di Bandoneon: «L’America di Trump è così estrema che ci dà una chance. E contrapporsi non basta»

Fabrizio Brancoli

La prima frase pronunciata da Paolo Rumiz in questa conversazione sarebbe sufficiente, da sola. Lo intercettiamo alle 17.07 e risponde così:

sto attraversando il confine.

Segue una spiegazione pratica, fatta di segnali telefonici, di prassi frontaliere (in questo caso siamo tra la Trieste dello scrittore e il piccolo borgo sloveno dove ha preso casa). Se cade la linea, richiamami tra qualche minuto: quando i ripetitori e le onde elettromagnetiche dei cellulari avranno fatto il loro dovere di dogana, alzando la transenna invisibile e consentendo a due persone di comunicare.

Rumiz “attraversa il confine” da sempre: è la sua vocazione profonda, declinata in viaggi, libri, reportage, presenze sceniche. Oggi, rientrando in Italia, andrà in Romagna dove gli consegneranno un premio prestigioso, il Dante-Ravenna.

Nella motivazione c’è scritto che lui “usa la strada, i confini e gli incontri come strumenti di interpretazione del mondo: l’Italia minore con i suoi borghi di provincia, l’Europa con le sue ferite e radici comuni, il Mediterraneo e l’Oriente con le loro memorie antiche e contraddizioni”.

Dante ha trasformato il viaggio in un cammino interiore, universale. Per lei il viaggio è un atto fisico, un contatto con corpi e paesaggi. Dove si incontrano il viaggio dantesco e il suo?

«Inquadrare Dante solo come un viaggiatore interiore è riduttivo: anche lui è stato un migrante. Arriva a raccontarci il percorso della Commedia dopo anni di vita raminga, reale. È da quella che trae la profondità. Per me lui è stato la salvezza, una consolazione».

Da che cosa l’ha salvata?

«Viaggiare è anche solitudine. A Cambridge, dove ho vissuto, parlavo l’inglese ma l’italiano mi mancava tanto. Così camminavo. Lungo la ferrovia, per esempio. E per confortarmi, recitavo le terzine. Mi hanno insegnato il senso del ritmo in una narrazione».

Per Dante Ravenna è la fine del viaggio. Lei, che parla spesso di partenze, che cosa pensa degli arrivi?

«Penso che non esistano. Non c’è arrivo, non si arriva mai. Neppure quando si muore. Anzi: quella la considero la partenza del viaggio più grande».

Nei suoi libri il viaggio non è mai solo spostamento, ma una forma di conoscenza. Ed è spesso un viaggio “lento”, che segue il ritmo necessario dell’esperienza. Ma il viaggio, oggi, è soprattutto consumo, velocità e affari. È possibile educare alla lentezza?

«È un tema culturale, non un allenamento sportivo. Per me i viaggi rapidi non sono tali. L’unico vero viaggio è quello che ti cambia».

Ha detto: “Ho l’impressione di aver scritto sempre lo stesso libro”. Cosa intendeva?

«Quando rileggo i miei primi libri ci scorgo un’istanza interiore: volevo costruire una mia visione del mondo. Ecco, quel desiderio è sempre lo stesso. La visione del mondo si compie passo dopo passo».

Se chiediamo a qualcuno di parlare di Europa, la risposta spesso si riferisce all’Unione europea. Uno scarto geografico, inconscio. Ma lei ci mostra un’Europa più ampia, che include i Balcani e altre aree dimenticate o, meglio, ignorate. Perché, per lei, esiste un muro di vetro che ci impedisce di guardare a est? È un limite politico, culturale? Un’amnesia della memoria collettiva?

«C’è un vuoto narrativo su che cosa sia l’Europa. Per iniziare, dovremmo rimuovere quell’articolo prima della “E” e pensare a lei come una persona. Dovremmo diventare consapevoli di alcune verità. La prima è che l’Europa è una donna. Poi si tratta di una migrante; e arriva proprio dai luoghi delle persone che oggi respingiamo. Questo ci dà poca coscienza di noi stessi, della nostra Madre, del suo rapporto con il Mediterraneo e con il Nord. E tentiamo di supplire a questa mancanza con il senso del contrasto. Contro Putin, contro l’Islam, contro Israele che sta facendo cose che non possiamo sopportare. Ma l’identità “in negativo”, sviluppata solo su ciò “che non siamo”, non è sufficiente».

Questi sono gli anni di Donald Trump, feroci.

«Penso che il nostro tempo europeo non stia cogliendo la grandiosa occasione della presenza di Trump dall’altra parte dell’oceano. Questa America è così estrema che consente davvero di differenziarsi. Semplicemente, serve più Europa nel nostro atlantismo. E in particolare l’Italia ha una vocazione straordinaria mediterranea, una vocazione alla mediazione e al dialogo anche con gli avversari, alla ricerca delle parole giuste. Questa sarebbe la portaerei culturale del Mediterraneo ma non esercita la funzione. Siamo un Paese decisivo. Ma non lo sappiamo».

L’Europa come mosaico di voti e storie diverse, l’Europa come filo conduttore tra popoli e territori. Quali di questi due luoghi comuni la convince di più?

«Non sono alternativi. Ma la metafora più giusta è quella musicale. Siamo un coro di diversità. Nella European Spirit of Youth Orchestra – una fantastica esperienza con la quale collaboro come voce narrante – si compie ogni giorno il miracolo di musicisti di provenienze differenti, anche fortemente antagoniste, che suonano insieme. E suonano bene».

Però i giovani non sono tutti come quei musicisti di talento, ispirati e aperti.

«Sono influenzati dalla narrativa della contrapposizione. Collocarsi contro qualcuno o qualcosa li affascina, li seduce. Tendono a sottolineare le differenze con l’altro, più che cercare i punti di confronto. Quanto ai vecchi – diciamo una fascia intorno agli ottant’anni, come nel mio caso _, hanno vissuto una condizione unica: niente guerre, confini aperti, possibilità di scambio. È mancata in loro la percezione che tutto questo, che poi è la libertà, si conquista giorno per giorno e non è acquisito».

La musica è diventata per lei una lettura del mondo.

«Di recente sono stato in Argentina, sulle orme di mio padre e di mio nonno, che era emigrato là da bambino, a otto anni. L’ho fatto con un’enorme fortuna, quella di accompagnare un gruppo di bandoneonisti e fisarmonicisti di confine: il grande Rodolfo Mederos, che li ha reclutati, e poi Zoran Lupinc, Stefano Bembi, Imad Saletović, Maurizio Marchesich. Lingua italiana e slovena, straordinari. Li hanno invitati al Festival mondiale del Tango e quella è stata la colonna sonora della riscoperta di mio padre e della sua storia. Mio padre era forte. Faceva ballare una donna come un dito fa girare una trottola. All’aeroporto di Buenos Aires hanno controllato il mio bagaglio, c’era il bandoneon. Ho pensato: ecco, lui è la mia scatola nera. Registrerà ogni vibrazione della anima in questi giorni, in un viaggio lungo quattordicimila chilometri ma anche lungo un secolo».

Tra musica balcanica e tango sono emerse affinità.

«Abbiamo scoperto che il Danubio e il Rio della Plata confluiscono in un unico fiume sonoro. Noi europei tendiamo a considerare la musica balcanica come orientale, ma è nostra. Arriva dalle tragedie greche, porta nostalgia e amarezza, migrazione e malinconia».

Quale dovrebbe essere un buon programma politico?

«Unire Carlo Magno con Federico secondo di Svevia».

Che cosa ci manca, che cosa ci serve?

«Forse ci manca ridere. Ridere è importante perché fa decantare la tensione. Sono stato in un liceo di Roma e ho respirato un approccio aggressivo, proprio quando insistevo a parlare di Europa. A un certo punto un ragazzo, spazientito, mi ha apostrofato: ma insomma, lei mi deve dire che cosa abbiamo in comune noi con i francesi. Ho pensato a come rispondere: avrei potuto parlargli per ore dei punti di contatto culturali. Invece alla fine ho scherzato e gli ho detto; guarda, tu finirai per sposare una francese! Stava sfidandomi a cercare gli aspetti condivisi, ma in realtà ciò che ci attrae è diverso da noi. Si sposerà con una francese, ne sono convinto». —

 

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