Premio Nobel per la letteratura, vince lo scrittore László Krasznahorkai: il maestro dell’Apocalisse
Ungherese di nascita, apolide per scelta, abita anche a Trieste dove dice di sentirsi a casa nel nome di Joyce e Svevo

Il primo a definire impronunciabile il suo nome, László Krasznahorkai, è proprio lui: lo scrittore ungherese poco più che settantenne che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Per una volta non è una sorpresa. Si immaginava che sarebbe stato un autore europeo, si ragionava su autori dell’Est europeo e lui è almeno dal 2020 in tutte le liste di possibili Nobel. Nonostante la sua scarsa simpatia per Orban, non è neppure un premio particolarmente politico, perché la sua critica al mondo, al vivere dell’uomo, è così radicale da non potersi identificare con un paese, con un regime politico, con un tempo definito. A chi gli chiede se i mondi distopici che popolano i suoi romanzi sono ritratti dell’Ungheria, lui da sempre risponde che l’Ungheria è dappertutto.
Certo, la vita l’ha a lungo portato lontano dal suo paese. Nato nel 1954, in un paese sovietizzato dopo la rivolta del 1956, appena ha potuto è passato aldilà della cortina di ferro. Ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, ma anche in Giappone (ed alcuni suoi libri come “Seiobo è discesa quaggiù” ne riflettono l’estetica) in Austria e in Italia, a Trieste, in una casa vicino alla Grande Sinagoga da cui si vede uno spicchio di Adriatico. Una irrequietezza che lo accompagna ancora e lo porta a dividersi tra tutti questi paesi diversi, apolide per scelta, per diffidenza ormai maturata verso ogni forma di confine. La sua figura ieratica rende visibile anche fisicamente il senso della sua scrittura. Susan Sontag, con una formula che poi tutti hanno ripreso e lui non rinnega, lo ha definito “maestro dell’Apocalisse”, perché nei suoi libri prevale la rovina, l’attesa della fine imminente, un afflato metafisico che nega però la speranza. Una apocalisse che – spiega in tutte le sue interviste László Krasznahorkai – non è di là da venire, ma è qui e ora, connaturata alla vita umana, forma stessa del vivere, si potrebbe dire.
“Sono molto contento di aver ricevuto il Premio Nobel, soprattutto perché questo premio dimostra che la letteratura esiste di per sé, al di là di tutte le aspettative non letterarie, e che viene ancora letta – ha detto -. E a quelli che la leggono infonde una certa speranza nel fatto che la bellezza, la nobiltà e il sublime ancora esistono in sé e per sé. Può dare speranza anche a coloro nei quali la vita è viva appena.
Fiducia – anche se sembra che non ve ne sia ragione”.
I suoi libri vivono in un tempo sospeso, anche quando hanno riferimenti storici precisi. Perché il padre della sua scrittura è dichiaratamente Kafka, il nume tutelare che ha ispirato il suo primo romanzo, “Satantango”, uscito in Ungheria nel 1985, ma in Italia da Bompiani soltanto nel 2016, dopo cioè la vittoria del Booker Internazional Prize, che lo ha reso famoso in tutto il mondo. In “Satantango”, diventato anche un film di Bela Tarr, si trova già la figura dei libri di László Krasznahorkai: un uomo cioé (in questo caso il suo nome è Irimiás) capace di catalizzare su di sé le attenzioni di tutti quelli che gli stanno intorno, un perno intorno a cui girano tutte le storie, la polifonia di voci che caratterizza le opere dello scrittore ungherese.
E il termine polifonia è essenziale, perché la scrittura di Krasznahorkai è alluvionale, si compone sovrapponendo voci, inseguendo un suo ritmo interiore. E se in “Satantango” i lunghi periodi prevedono ancora virgole e punti, già nel successivo “Melancolia della resistenza” (del 1989, ma uscito in Italia nel 2018 sempre da Bompiani come tutti gli altri del resto) si diradano ulteriormente per poi sparire del tutto in “Herscht 07769”, (2022), il suo ultimo romanzo edito.
Perché oltre a Kafka, l’altro grande punto di riferimento è Bach, su cui da tempo lo scrittore ungherese medita anche di scrivere un libro. Ed allora le parole contano per quel che dicono, ma anche per la loro musica interiore, per il ritmo che imprimono alla pagina, in un flusso di coscienza collettivo che è il marchio di fabbrica di Krasznahorkai.
Al contrario di Thomas Bernhard, altro suo autore di riferimento, lo scrittore ungherese non batte e ribatte ossessivamente sulle parole e sui concetti, la sua prosa «corre a perdifiato» – dice lui – «anche se non si sa mai bene se per fuggire da qualcosa o per cercare qualcosa che comunque non arriva».
I personaggi intorno cui ruotano i suoi libri, per esempio “Il ritorno del barone Wenckheim” hanno un’aura messianica, che lascia però sempre delusi. Secondo alcuni critici il modello di tutti è un po’ il Principe Myskin de “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij, ma senza che la purezza si associ alla incapacità di difendersi, come dimostra il “Florian Herscht” di “Herscht 07769” alle prese con i nazisti del villaggio della Turingia in cui vive. Un autore mitteleuropeo viene da dire – anche se lui non ama la definizione – ma anche uno sperimentatore, che non caso dice di trovarsi a casa a Trieste, anche nel nome di Joyce e Svevo. Il suo ultimo libro uscito in Italia è la raccolta di racconti “Avanti va il mondo” (2024) mentre nel 2026 uscirà “Panino non c’è più”.
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