Cinema al cento per cento, le nostre recensioni dei film in sala dal 9 ottobre

L’incubo atomico diretto magistralmente da Kathryn Bigelow “A House of Dynamite”. “Tre ciotole” dai racconti di Michela Murgia. Una commedia nera francese “Un crimine imperfetto” sulle orme dei fratelli Coen. E l’esordio di una regista slovena “La ragazza del coro”

Marco Contino, Michele Gottardi
La ragazza del coro
La ragazza del coro

Esce in sala (ma già dal 24 ottobre sarà on demand su Netflix) il nuovo film di Kathryn Bigelow, già presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. Monito potente, girato in modo magistrale, che ci ricorda come il mondo, oggi, viva dentro la “casa di dinamite” del titolo, sperando che non esploda.

Isabel Coixet dirige Alba Rohrwarcher e Elio Germano in “Tre ciotole”, tratto da Michela Murgia, che cammina lungo una linea di commozione latente e di sentimento pregnante, dove i silenzi prevalgono sulle parole e sui rumori inutili.

“Un crimine imperfetto” di Franck Dubosc porta le atmosfere di “Fargo” dei fratelli Coen sulle montagne del Giura francese: una borsa piena di soldi e morti rocambolesche in una commedia nera e ironica che sa smarcarsi da uno sguardo semplicemente derivativo.

Opera prima della regista slovena Urska Djukic, “La ragazza del coro” fonde “coming of sensual age”, mai volgare, con una suggestiva riflessione sul ruolo del corpo della donna in una scuola religiosa che, come da grande tradizione letteraria e cinematografica, scatena desideri repressi.

A house of dynamite

Regia: Kathryn Bigelow

Cast: Rebecca Ferguson, Idris Elba, Gabriel Basso, Jared Harris

Durata: 112’

Voto: 8

Con “A House of Dynamite”, Kathryn Bigelow (prima donna a vincere un Oscar per la miglior regia con “The Hurt Locker” nel 2010) porta sullo schermo l’incubo atomico in un serratissimo thriller politico … senza azione. Il film, presentato in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (ma sul grande schermo si potrà vedere solo in pochissime sale fino al 24 ottobre: dopo approderà su Netflix), racconta le drammatiche ore vissute nelle stanze del potere della Casa Bianca, del Pentagono e del centro di comando che controlla l’intero arsenale nucleare delle forze armate statunitensi, quando i sistemi di difesa rilevano un missile, di provenienza sconosciuta (Corea del Nord, Russia?), che sta per abbattersi su Chicago.

Bigelow adotta tre diversi punti di vista (che si intersecano tra loro, si moltiplicano e si richiamano di continuo sugli schermi delle situation room e sui cellulari di tutti coloro che sono coinvolti nel piano di difesa): quello di Olivia Walker (Rebecca Ferguson) nella task force di Washington, quello di un altro giovane membro dello staff della Casa Bianca (Gabriel Basso) e, infine, del Presidente degli Stati Uniti (Idris Elba), chiamato a decidere se attendere o contrattaccare, scatenando la fine del mondo. All’interno di questi tre quadri, introdotti da altrettanti capitoli, si muovono freneticamente altri personaggi (dal Segretario della Difesa al Capo di Stato Maggiore, dai soldati agli esperti di politica estera) che realizzano come anche le procedure e i protocolli più studiati, oggetto di centinaia di esercitazioni, siano, infine, lasciati alle decisioni, fallibili, degli uomini.

Bigelow restituisce, attraverso una messa in scena lisergica ed iperrealistica (anche grazie al lavoro dello sceneggiatore Noah Oppenheim, ex giornalista della NBC, dal cognome che ricorda, ironicamente, proprio quello del padre della bomba atomica), quel senso di guerra permanente che irrora le vene del suo cinema adrenalinico e muscolare, in cui la violenza diventa una esperienza totalizzante. Da quell’“armadietto del dolore” che fu “The Hurt Locker”, in cui il sergente William James, sminatore di bombe in Iraq, conservava i pezzi di una vita irrimediabilmente intossicata, “drogata” dal conflitto, alla caccia - ossessiva e traumatica, fisica e insieme fantasmatica - di Bin Laden (Zero Dark Thirty), fino a “Detroit” che spostava il campo di battaglia dentro i confini della società razzista americana, la guerra è la dimensione di un oggi che si interroga non sul “se” ma sul “quando” la tessera di un domino innescherà una irrimediabile reazione a catena. Traghettando l’umanità in quel “The Day After” che l’America imparò a immaginare con sgomento, in piena Guerra Fredda, con il film televisivo del 1983 sugli effetti devastanti di un attacco nucleare.

Dopo un effimero periodo di dismissione degli arsenali, ora il mondo corre veloce verso la propria autodistruzione. Nel film c’è la guerra globale ma ci sono anche le debolezze e gli indugi personali che diventano resa disperata nel gesto sconcertante di uno dei personaggi. Il finale non spiega, non mostra, non cede alla oscenità e alla morbosità delle conseguenze delle scelte dei singoli. Un complicato puzzle acustico e visivo che non è fantascienza ma già realtà.

(Marco Contino)

Un crimine imperfetto

Regia: Franck Dubosc

Cast: Franck Dubosc, Laure Calamy, Benoît Poelvoorde

Durata: 109’

 

Voto: 7

Pochi giorni a Natale. Sulle montagne del Giura francese, Michel (Franck Dubosc, anche regista del film) e Cathy (Laure Calamy: ormai una garanzia, qualsivoglia sia il genere) se la passano male, tra debiti, un figlio problematico e un rapporto coniugale al capolinea. Ma, complice un orso (che in quei boschi nemmeno dovrebbe starci!), la coppia si ritrova con una borsa piena di soldi in mano e una scia di cadaveri che mettono in allerta il capo della gendarmeria locale (un perfetto Benoît Poelvoorde), attirando nel paesino strani personaggi.

Tra morti rocambolesche, narcotrafficanti, miele e crisi familiari, un elegante locale per scambisti sarà l’approdo finale di una commedia nera in cui può capitare che anche delle piccole formiche mangino una balena. “Un crimine imperfetto” si muove nel solco di una tradizione cinematografica riconoscibilissima: “Fargo” (anche per l’ambientazione innevata) è più di una suggestione ma Dubosc se ne smarca con uno sguardo che sa dosare l’ironia tipicamente francese e la malinconia di una comunità di provincia disarcionata dalla vita che frenano l’accumulo di situazioni paradossali e grottesche per aprirsi ad un epilogo dal respiro solidale, senza giudicare a tutti i costi gli “slittamenti” morali dei protagonisti.

(Marco Contino)

Tre ciotole

Regia: Isabel Coixet

Cast: Alba Rohrwacher, Elio Germano, Francesco Carril, Silvia D’Amico

Durata: 120’

Voto: 6

 

Tre Ciotole
Tre Ciotole

Tre ciotole, diretto da Isabel Coixet, è l'adattamento dell'ultima raccolta di racconti di Michela Murgia, quando la scrittrice era già cosciente della malattia e dei suoi sviluppi infausti. Il film segue le vicende di Marta e Antonio che, pur giunti alla fine del loro rapporto, si lasciano dopo un banale quanto pretestuoso litigio.

Marta, un’insegnante di scienze motorie (Alba Rohrwacher, non proprio quello che si dice l’immagine di un’atleta), si chiude in se stessa e diventa quasi anoressica, senza appetito. Tuttavia, dopo qualche esame, emerge una malattia profonda, senza troppe speranze. Tutto cambia, anche nei rapporti umani, che diventano eterei, insieme importanti, ma non fondamentali, sia con Antonio (Elio Germano), chef non particolarmente di successo, che col giovane collega di filosofia, il professor Agostini (Francesco Carril, nella serie “Dieci capodanni”) nel liceo dove insegna, o la sorella Marta (Silvia D’Amico), invadente per affetto.

Con una fonte così forte emotivamente, il film non poteva che scegliere una linea di commozione latente e di sentimento pregnante, dove i silenzi prevalgono sulle parole e sui rumori inutili. Il rischio di un’operazione come questa, tuttavia, è che la forma del dolore e della sofferenza, pur solo evocati e sfumati in un finale ellittico, prevalgano sulla sostanza narrativa, anche mantenendo un registro delicato e intimo. Tutto sfugge, con la vita, anche i legami familiari e affettivi, oltre al rapporto con Roma, che resta sullo sfondo, ma non troppo, giusto quel tanto che basta per veicolare il film in modo un po’ convenzionale, per pubblici un po’ meno raffinati e più sensibili alla fotografia di scena.

Le tre ciotole del titolo sono cose particolari, apparentemente senza valore, che alla fine rivestono una collocazione e un ruolo imprevisto, come il vuoto degli affetti lasciato da chi non c’è più.

(Michele Gottardi)

La ragazza del coro

Regia: Urska Djukic

Cast: Jara Sofija Ostan, Mina Svajger, Natasa Burger, Marko Mandic, Branko Zavrsan

Durata: 89’

 

Voto: 6,5

Urska Djukic è una regista slovena, debuttante dietro alla macchina da presa, che, con “Little Trouble Girls” (“Piccole ragazze problematiche” da noi distribuito con il titolo “La ragazza del coro”), ha già vinto un premio Fipresci alla Berlinale 2025. Un film che esplora mondi conosciuti, il collegio femminile, la scuola religiosa, dove le ragazze si scambiano le prime sperienze sentimentali e qualche bacio furtivo. Ambiti e ambienti noti, ma narrati con la delicatezza e la curiosità che è propria delle adolescenti, in un coming of age, un romanzo di formazione, mai banale e scontato.

Lucia ha sedici anni, è una ragazza timida, introversa, ma attenta alla vita che sembra scorrerle intorno, senza coinvolgerla troppo. Viene da un'educazione familiare e scolastica molto rigida, per cui il corpo, le sue pulsioni e le sue manifestazioni, compreso il trucco, sono peccati da rimuovere o da rinviare più avanti. La scuola religiosa, come da grande tradizione letteraria e cinematografica, scatena desideri repressi: quelli di Lucia sono ancora blandi, crescono lentamente in modo pudico, ma inesorabile, come la narrazione della regista slovena. Alle sue pulsioni interiori fanno eco quelle delle compagne, che si manifestano anche in modo malizioso, come quelle di Ana Maria, la più disinibita.

Tutto intorno c’è una natura che sta sbocciando, analogia forte con l’adolescenza delle protagoniste, a cominciare dall’ape che si perde tra i pistilli di un fiore. Alternando i primi piani delle ragazze o i fuori campo più morbosi, i corpi e i luoghi, Djukic oscilla anche tra il carnale e il sacro, tra il nudo di un operaio che fa il bagno nel ruscello (ed eccitazione successiva) e la statua della Madonna e il convento delle suore che ospita il coro in tournée.

Insomma, da un lato il coming of sensual age, mai volgare, dall’altro una riflessione anche sul ruolo del corpo della donna, compreso quello della suora che racconta come la vocazione e il tocco di Dio sublimi quello dell’uomo e il desiderio. Il tutto con uno stile sicuro, che si rafforza nel corso del film.

(Michele Gottardi)

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