A Pordenonelegge il ritorno di Chiara Valerio: «La letteratura ci presta gli occhi degli altri»
La scrittrice presenta alle 11.30 di sabato il nuovo romanzo La fila alle poste. Tra giallo e memoria. «L’amore serve, perché ci cambia»

Con “La fila alle poste” Chiara Valerio ci riporta negli anni’90 a Scauri in provincia di Latina, la cittadina dov’è cresciuta, e a Lea Russo, già protagonista di “Chi dice e chi tace”, sempre edito da Sellerio.
Lea è avvocato, è sposata con Luigi, ha due figlie e pensa ancora a Vittoria, la donna che ha amato, morta tre anni prima, coprotagonista in assenza eppure presentissima anche nella memoria dei suoi concittadini che affrontano l’uccisione di una bambina: c’è un giallo da risolvere, o forse no, perché tutti sembrano sapere chi è l’assassina. “La fila alle poste”, che Valerio presenta alle 11. 30 in Piazza San Marco, è proprio lì dove convergono le voci del paese, in un romanzo che parla anche di collettività, soprattutto di amore.
Scrive della Scauri della sua adolescenza: da adulti rileggiamo con occhi diversi il posto da cui veniamo?
«Purtroppo o per fortuna abbiamo sempre gli stessi occhi. La letteratura, ogni tanto, ci presta gli occhi degli altri, gli occhiali. Quindi non ho reinventato Scauri nella misura in cui, non avendo mai smesso di andarci, ho continuato ad accumulare angoli e modi di dire. L’invenzione, più in generale, riguarda il passaggio dalle tre dimensioni della nostra realtà a quella a due dimensioni della pagina scritta. Ho sempre amato Scauri, e l’ho sempre temuta. Come temo tutte le cose che amo, perché l’amore è la più tenace forma di modificazione a cui siamo sottoposti. Motivo per cui l’amore serve, perché ci cambia. Ma non gli occhi, gli occhi rimangono gli stessi».
Il romanzo riflette sul fatto che siamo sempre meno capaci di confrontarci, “sostituiamo l’etica e la pazienza con la giurisprudenza”…
«Questo dice Lea, se c’è la leggetta, la leggiucola, il cavillo, allora non devo preoccuparmi di questioni sulla mia responsabilità. I confronti sentimentali vanno in questa direzione: pensi alle cause di divorzio, o separazione portate avanti a colpi di registrazioni delle telecamere di sorveglianza, messaggi, vocali. I confronti politici vanno in questa direzione e anche quelli culturali: pensi la disabitudine ad appoggiarsi al pensiero di un altro, invece di dire subito “che stronzata”. Proprio chi dice di essere contro il binarismo, che tanto è andato a detrimento della rappresentazione delle donne nella società, cede alla divisione tra ciò che è corretto linguisticamente e cosa no. Invece è tutto mischiato e, volta per volta, valutando i contesti bisogna azzardare cosa si può “dire fare baciare” o no».
Lea ama il marito e anche Vittoria, non si chiede “cosa sono? ”, piuttosto “cosa desidero? ”. Abbiamo sopravvalutato l’importanza di definirci secondo un’identità?
«Non ho mai amato il concetto di identità né nelle mie giornate, né quando la funzione identità mi serviva in matematica. Mi piacevano gli anni Novanta quando, non potendo parlare apertamente di certi desideri, che poi erano i miei, bisognava mettersi un orecchino da un certo lato o vestirsi in un certo modo per mandare un segnale. Ecco, i vestiti che si sporcano e possono essere cambiati, possono essere tinti, si consumano e si perdono, sono l’unica identità che, con difficoltà, posso accettare. Una identità che cambia, che è maschera pure, infingimento. Una identità che è relazione».
Paolo, 14 anni, in un paese vicino a Scauri si è ucciso dopo aver subito anni di bullismo. Anche nel suo libro c’è una famiglia lasciata sola: c’è una responsabilità collettiva che dimentichiamo?
«Penso che il mondo intorno ci modifica. Il nostro cervello stabilisce connessioni in base al mondo intorno. Questo significa, per me, che se, volta per volta, non facciamo niente per cambiarlo, poco a poco, un lavoro da goccia d’acqua non di bufera, allora la responsabilità di ciò che accade è anche nostra. Ma non di ciò che accade in televisione, di ciò che accade nella porta accanto. La porta accanto è più difficile, la porta accanto ti riverbera l’inefficacia nel modificare anche questioni piccole. E invece le questioni piccole e quelle grandi devono andare insieme, e quelle piccole sono utili, lo ripeto, a misurare la nostra inefficacia».
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