Crepet:«Oggi la libertà è messa sotto scacco dalle tecnologie digitali»

Il libro del sociologo sarà presentato al Verdi per il festival. «Viviamo in un mondo meno libero, serviamo più coraggio»

Cristina Savi

Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e scrittore, da anni ci provoca e ci stimola a riflettere con lucidità critica sul nostro tempo. Nel suo nuovo saggio, Il reato di pensare (Mondadori), che presenta oggi a pordenonelegge alle 21, nel Teatro Verdi di Pordenone, insieme al vicedirettore del Messaggero Veneto, Paolo Mosanghini, invita a difendere la libertà più autentica: quella di un pensiero libero e coraggioso, capace di resistere all'omologazione.

Perché pensare, oggi, diventa un atto rivoluzionario, soprattutto se significa resistere alla tentazione di delegare il nostro giudizio ad algoritmi o conformismi.

Nel suo nuovo saggio parla del “reato di pensare”: cosa significa, oggi, avere il coraggio di un pensiero libero?

«Intanto significa avere un pensiero: non è affatto scontato. Si può essere liberi senza averne, ma oggi pensare è necessario e difficilissimo. Occorre informarsi, distinguere fra notizie vere, verosimili o false. Serve coraggio, perché viviamo in un mondo che a me sembra meno libero di trent'anni fa. Non che allora ci fossero grandi democrazie, ma oggi sento un peso diverso: è difficile parlare senza cercare audience o consenso. Il pensiero libero, che va oltre il consenso, è merce rara in un mondo dominato da tecnologie valutative. Nel libro ho anche voluto scrivere parole nette sul dolore del nostro tempo: mi indigna vedere bambini deportati, affamati, uccisi, in un esodo biblico: solo il termine dovrebbe far rabbrividire chiunque, al di là di ideologie o religioni. Se non c'è indignazione, non c'è libertà».

Viviamo in una società che proclama la libertà ma sembra alimentare conformismo e autocensura. Da dove nasce questa contraddizione?

«Oggi la libertà è messa sotto scacco non solo da dittatori e regimi, ma dalle tecnologie digitali che modellano i nostri comportamenti. L'intelligenza artificiale non chiede permesso: entra e cambia anche il nostro modo di pensare. Su questo mi aspetto dai giovani una ribellione, qualcuno che dice: “Io voglio pensare con la mia testa, non con un algoritmo”».

Nel libro si parla della “seduzione” di una tranquillità che spegne creatività e originalità. Come resistere a questa deriva?

«Tutto porta all'educazione. Se in Russia esistono oltre duecento campi di rieducazione per bambini ucraini rapiti, significa che lo pensano anche i dittatori…Montessori diceva: “Educare è libertà, oppure non è”. Cent'anni fa il nemico era l'autoritarismo pedagogico e lei ha dovuto rovesciare questo e trovare un'idea di educazione autorevole e non autoritaria. Oggi è diverso: non c'è più un avversario concreto, ma un algoritmo. E ha una forza micidiale. Non è pessimismo da vecchi: Geoffrey Hinton, padre dell'IA, ha detto di sentirsi come Oppenheimer nel '44. Se lo dice lui, ascoltarlo».

In una recente intervista ha definito “allucinante” il vuoto che divora i giovani. Che vuoto è?

«Ogni giorno leggiamo di ragazzi che si accoltellano, si picchiano, si bullizzano. Un'adultizzazione precoce e inquietante. Ci sono bambini di otto anni fuori di notte, ragazzine di dodici con addosso centinaia di euro. Non è marginalità sociale: è un vuoto spaventoso. Una frustrazione senza futuro, perché noi gliel'abbiamo tolto. L'ho scritto anni fa: il “disagio dell'agio”. Una profezia che si è avverata».

È un mondo senza speranza?

«La storia ci insegna che l'umanità è uscita da tragedie enormi. Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo ricostruito bellezza e progresso. Ma dovremo aspettare un'altra catastrofe per riscoprirci? Ci vuole un nuovo Rinascimento, fatto dagli individui, uomini e donne che agiscano oltre gli interessi distopici degli Stati, con responsabilità personale e cercando la verità».

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