La percezione delle cose
”La percezione delle cose” è un racconto di Mauro Piva, nato a Somma Lombardo e residente a Bucarest. Il racconto è uno dei finalisti del premio Scebranenco

Questa è la storia di un treno, rimasto fermo per quarant'anni in una stazione sconosciuta. Non si trattava di un convoglio qualunque: viaggiava infatti sui binari della fantasia, ma se c’è una cosa che non ci mancava, a dieci anni, era il fervore dell’immaginazione.
Tre cilindri di cemento per pozzi, una mano di vernice che sfioriva di primavera in primavera, e un gruppetto di chiassosi passeggeri. All'ombra dell’oleandro, giusto due tiri di palla dopo la giostra carosello, si rendeva rifugio nelle giornate piovose e santuario quando il sole castigava le pietre.
Le regole erano chiare: la sabbionaia era per gli infanti polpacciuti accompagnati dalle mamme, una consorteria di donne iper ansiose e pettinate come Farrah Fawcett; oltre le siepi, invece, l'emiciclo di panchine che guardava alla fontana segnava il territorio dei ragazzi delle medie, una tribù che parlava lingue aliene, si preoccupava di vestire griffata e che passava il tempo a sbaciucchiarsi come nei film con Pierre Cosso e Sophie Marceau.
Quei vagonni di calcestruzzo, invece, erano riservati alla nostra ghenga. Vivevamo nei palazzi che sorgevano di fronte al parco, e in quei giardinetti ci eravamo cresciuti. Talvolta le mamme s’affacciavano alla finestra per assicurarsi che non stessimo facendo la fine di Incompreso, o che non scambiassimo le figurine con le “caramelle di droga”.
Tuttavia, col passare del tempo, la sorveglianza s’era allentata sempre più, e quello fu uno sbaglio non privo di conseguenze. Il giorno in cui il povero Nanni fu ritrovato cadavere nessuno s’era accorto di nulla, e quell’episodio segnò la fine dei nostri giochi, delle nostre avventure, di ogni spensieratezza. Anche l’infanzia era giunta al capolinea.
Oggi pioviggina, e al parco di bambini non se ne vedono. Non so nemmeno se ci vanno ancora, a essere franchi. È dall’84 che manco, e mai mi sono lasciato solleticare dall’idea di un rimpatrio. La mia famiglia si era trasferita altrove alla fine di quell’estate; in città avrei potuto frequentare le scuole migliori - millantavano i miei - ma la vera motivazione era che mia madre non sopportava più di vivere in un luogo dov’era stato ammazzato un bambino.
A riportarmi indietro è stato un fatto recente: un’inattesa proposta d’assunzione da parte di un’azienda che ha sede proprio qui. Tu pensa quanto è piccolo il mondo. A tal proposito, stamane, ho varcato il perimetro del paese con un’ora d’anticipo; non che temessi d’arrivare in ritardo, ma sopravviveva in me il ricordo d’un lungo tragitto, fatto di strade ampie e smisurati filari d’alberi.
Invece, ogni cosa sembra essersi ristretta, durante la mia assenza. Le vie, le piazze, i palazzi, perfino il parco giochi s’è fatto piccino. È incredibile come cambi la percezione delle cose, quando si cresce. Come un randagio attendo l’orario del colloquio, vagando tra quei viottoli che furono la nostra seconda casa. Il maltempo non mi disturba; fa il paio con l’uggia che mi sale dall’interno, e mi pare di assistere a uno di quei film con De Niro e Joe Pesci, quando i fantasmi di gioventù si prendono la scena per diradare le brume della memoria.
Mi pare ancora di sentirle, le voci dei miei amici, mentre riecheggiano tra quei cimeli di cemento. C’era Ettore, il figlio del fornaio, che ci portava le focacce sottratte al negozio; Alessandro, di genitori edicolanti, che ci faceva pervenire i fumetti di Tex e di Charlie Brown; Gian Maria, il benestante, che aveva una collezione di Masters da urlo; Nanni era la nostra mascotte, il fratellino adottivo che faticava a crescere. Era l’unico che veniva accompagnato da un familiare. Marta, sua sorella di quattordici anni, era bella da morire e tutti sognavamo di sposarla, da grandi.
«Mi raccomando» ci sorrideva con quei suoi denti perfetti, i lineamenti luminosi quanto quelli d’una dea azteca. «Trattatelo bene. E che non si faccia male!»
Era ovvio che facessimo a gara a non sfigurare di fronte a quell’angelo benedetto. Dopo averci affidato il fratellino si ritirava a torma privata coi suoi coetanei, oltre le dogane proibite delle panchine. Si fidava di noi, ed era molto attaccata a Nanni.
Pochi giorni dopo la tragedia aveva lasciato una scritta a pennarello, sulla parete interna di un cilindro, quello che fungeva da locomotiva. “Nanni la tua Marta” recitava. Sembrava una frase lasciata appesa, quasi le fosse mancata la forza di proseguire. Oppure era soltanto un addio, scritto da una ragazza alla quale si era rotto il cuore.
E poi c’era Jean-Jacques, un bambino d’origini francesi al quale avevamo storpiato il nome in “Cianciac”, meno ostico per la nostra comprensione di allora e più simile al Don Chuck dei cartoni animati. Quest’ultimo era arrivato da poco in paese, e non ci piaceva molto. Nella nostra innocente stupidità di bambini cercavamo di isolarlo; era un tipo bizzarro, mamma diceva che era affetto da una strana sindrome, ma la cosa che più ci stizziva era che si comportava come uno spione. Osservava la gente come un ornitologo farebbe con uno stormo di uccelli rari, e poi, da alcuni dettagli che solo a lui balzavano agli occhi, era capace di raccontarti vita, morte e miracoli di ognuno, compresi i segreti più intimi.
Il giorno della scomparsa di Nanni era stata anche l’ultima volta che l’avevamo visto al parchetto.
«Vado a fare pipì» aveva annunciato il piccolino.
Cianciac gli si era piazzato di fronte. «No, aspetta! Non ci andare adesso!»
Nanni s’era fatto titubante. Quel tale non era capace di tacere, e non sapevi mai cosa avrebbe avuto da spifferare.
«Piantala Cianciac!» lo aveva rampognato Ettore. «Ti abbiamo detto mille volte di non rompere!» Lui aveva fatto orecchie da mercante.
«Ti dico di non andarci!» snocciolò. «C’è qualcosa che non dovresti vedere!» Nanni gli aveva rifilato uno spintone, incoraggiato dall’atteggiamento belligerante della ciurma. Ne venne fuori una mezza zuffa, presto sedata dal nostro intervento.
«Vattene via!» aveva intimato Alessandro a Cianciac. «E non farti più vedere, fino a quando non avrai imparato a tenere chiusa quella boccaccia!»
Osservammo quel bambino allontanarsi con una faccia di pietra, e solo ora che ho quarant’anni in più so che quello era il suo modo di affrontare la sofferenza. Le cose brutte le rinserrava nel suo universo interiore.
L’altro, Nanni, s’era avviato verso le siepi, dalle quali non avrebbe fatto più ritorno. Non sulle sue gambe, almeno. Fu ritrovato due ore dopo, il corpo che galleggiava sul pelo d’acqua del laghetto, le braccia distese come quelle di un Cristo bambino. Ad attirarci sul posto erano state le grida di Marta, una supplica disperata che perseguitò le mie notti per gli anni a venire.
«Lo hanno affogato» bisbigliavano le nostre madri nei giorni successivi, parlottando fra loro. «Lo dicono i giornali.»
Il nostro trenino s’è fatto incolore. Vorrei ignorarlo, ma sembra fermo sulla banchina in attesa d’un capostazione che non fischia più. Mi piego allora sulle ginocchia, e mi rendo conto che dentro quei cilindri non potrei più entrarci.
All’interno c’è di tutto: bottiglie di plastica, lattine di birra, le pagine strappate di qualche vecchia rivista porno. Fa schifo, e ora ho la certezza che i bambini, lì dentro, non ci vanno più.
La scritta di Marta è ancora visibile, sembra chiamarmi come se volesse gridare un’altra volta. La esamino. Mi accorgo di qualcosa, e quindi la guardo ancora. Una, due... dieci volte. Comincio a ripetermi che non è possibile; allungo una mano per toccarla, per accertarmi che sia tutto vero. Stropicciarmi gli occhi non serve a nulla. Non c’è mai stato scritto “Nanni la tua Marta” su quella parete curva. C’è dell’altro, e adesso, ogni cosa, assume un significato tremendo.
«Il titolare la vuole vedere» m’informa la signorina alla reception. Ero sul punto di non presentarmi nemmeno, la testa ormai sequestrata da ben altri pensieri.
«Il signor Petit è di poche parole» mi passa l’indiscrezione la donna, poco prima di avviarci verso l’ufficio, quasi a voler agevolare l’incontro.
La stanza è luminosa, sulla scrivania lo schema di un progetto che di norma richiederebbe la supervisione di dieci persone. La porta si chiude alle mie spalle, l’uomo di fronte a me solleva lo sguardo.
«Mi hanno detto che sei un bravo tecnico» esordisce. Io resto zitto per qualche istante, il rubinetto dell’aria che mi s’inceppa a livello dello sterno.
«Jean... Jean-Jacques?» blatero poi, con la voce che sembra uscita dalla bocca di qualcun altro.
«Cianciac» mi corregge subito. «È così che mi chiamavate allora.»
Poi batte il dito sul prospetto. «Comincio io o cominci tu?»
«Sono stato al parco» rivelo. Lui attende. Lo sa che non mi fermerò lì. «Tu sapevi tutto» prendo allora coraggio. «Perché non hai detto nulla?»
«Dovevo imparare a tenere la bocca chiusa» rievoca. «E comunque l’ho detto. Alla mia maniera, ma non mi avete capito.»
«Che fine ha fatto lei?»
«Morta d’overdose. Poco dopo la tua partenza.»
«Era questo quello che Nanni non avrebbe dovuto vedere?» intuisco. «Sua sorella che si bucava...» Cianciac annuisce. «Lui aveva prospettato di raccontare tutto al padre...»
«...e lei lo ha messo a tacere» mormoro disanimato. «È per questo che sei scomparso, non è così? Avevi paura di fare la stessa fine?»
Lui non risponde. Sto già dicendo io tutto quello che c’è da sviscerare.
«Però sei tornato al parco» proseguo. «Stringendo in pugno un pennarello.»
Cianciac continua a fissare la planimetria. Vorrebbe che lo dicessi io, ma il mio francese fa molta acqua. «Nanni l'a tué Marta» mi viene allora incontro.
Non mi resta che fargli eco. «Nanni l’ha ucciso Marta...»
Lui tace per un po’, poi gira il progetto dalla mia parte.
«L’ho comprato» mi fa. «Si chiamerà “il parco di Nanni”. Vorrei che ve ne occupaste tu e gli altri.» Sul momento non so cosa rispondere. Cianciac smuove le labbra, e mi rendo conto che è la prima volta che lo vedo sorridere. «Ci mettiamo un trenino vero» illustra. «Il più bel trenino del mondo.»
Il premio
Il vincitore sarà annunciato durante la cerimonia di premiazione che si terrà sabato 6 settembre alle 18 in Biblioteca civica a Lignano, ospiti lo scrittore Paolo Roversi e il direttore della collana Gialli Mondadori Franco Forte.
La giuria è formata da Cecilia Scerbanenco (presidente), Franco Forte (direttore editoriale de Il Giallo Mondadori), Luca Crovi (critico letterario e scrittore), Oscar d’Agostino (responsabile pagine Cultura del Messaggero Veneto), Elvio Guagnini (docente emerito Università di Trieste), Piergiorgio Nicolazzini (agente letterario), Donatella Pasquin (Consigliere con delega alla Cultura del Comune di Lignano Sabbiadoro) e Nicoletta Talon (bibliotecaria).
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