Ombre a San Siro

Pubblichiamo il racconto “Ombre a San Siro”, uno dei tre racconti finalisti del premio Scebranenco, scritto da Davide Damiani, nato a Faloppio 

Davide Damiani

Fermo su un marciapiede nel cuore di Milano, Andrea Monti guardò l’orologio. In città era calata la sera, afosa e tossica, con l’umidità che incollava la camicia alla schiena e lo smog che si poteva masticare. Non pioveva da giorni, e si temeva cosa sarebbe accaduto una volta che il temporale fosse arrivato. Si rischiava uno di quei tifoni tropicali che nelle ultime estati avevano sferzato la città, con alberi sradicati, macchine bombardate dalla grandine e sottopassaggi che diventavano acquitrini.

Per ingannare l’attesa, controllò i risultati dell’Europeo di calcio Under 17, dove quattro ragazzi della sua agenzia erano impegnati con le rispettive nazionali. C’erano anche i suoi collaboratori al torneo, per visionare nomi che tenevano in agenda da qualche mese e ottenere nuovi mandati di rappresentanza.

Eppure, mentre digitava sullo smartphone, i pensieri tornavano sempre a lui: Matteo Nardini, il suo miglior assistito, un attaccante già fatto nonostante i ventun’ anni, il numero 10 che l’Italia attendeva dal ritiro di Totti. Un metro e ottantasei, tecnico, capace di saltare l’avversario e calciare in porta con entrambi i piedi. Sette gol e sei assist nella prima stagione di Serie A; undici e otto nella seconda. Numeri da predestinato, che avevano attivato i radar dei grandi club europei. Si parlava perfino di Real Madrid.

Devo risolvere questa storia, pensò Monti, se no è un disastro.

Il problema si era palesato un mese prima, quando gli era giunta una voce che riguardava il ragazzo. A domanda precisa, Matteo Nardini aveva negato, definendola un’assurdità. Poi, un giorno in cui si erano trovati per parlare di nuove sponsorizzazioni, ogni discorso era stato fatto saltare dalle sue parole, appena aveva messo piede in ufficio.

«Andrea, è vero: io sono gay».

Il cervello del procuratore per un attimo era andato in cortocircuito. No, aveva pensato, non poteva essere vero, non doveva esserlo. L’omosessualità era un lusso che nessun calciatore poteva permettersi, figurarsi un talento di quel tipo. Sarebbe divenuto il bersaglio dei cori più beceri, offeso senza sosta sui social, oggetto di facili ironie tra gli addetti ai lavori. Ad ogni contrasto perso sarebbero sorti dubbi sul suo agonismo, senza contare gli insulti e le minacce degli avversari, e i loro interventi dritti sulle caviglie dopo l’ennesimo dribbling.

In un paio d’anni l’avrebbero distrutto, nelle gambe e ancor più nella testa. E Andrea Monti non poteva lasciare che accadesse: aveva investito troppo su Matteo, atteso da un nuovo contratto che sarebbe stato solo il primo di una serie di guadagni stellari. Cinque milioni all’anno e clausola rescissoria per l’estero: PSG, Liverpool, Bayern Monaco; erano club di quel tenore il loro prossimo obiettivo. In tal caso, Monti si sarebbe seduto a trattare dagli otto milioni in su, ricordandosi che il 3% finiva nelle sue tasche. D’altronde era stato lui a notare quel prodigio appena dodicenne, e aveva subito cominciato a coccolarselo, ingraziandosi i genitori e facendo i salti mortali pur di rappresentarlo.

Matteo Nardini si era rivelato una miniera d’oro, ma la sua omosessualità metteva tutto in pericolo. Soprattutto ora che qualcuno aveva delle foto che la dimostravano.

I pensieri di Monti vennero interrotti dall’arrivo di un grosso scooter, che si fermò accanto al marciapiede.

«Buonasera, avvocato» disse l’uomo alla guida, spegnendo il mezzo.

Lo chiamava ancora così, come quando l’aveva tenuto fuori di galera, anche se Monti in tribunale non ci andava da quindici anni. I soldi veri ormai erano nel calcio.

«Buonasera, Daniele».

La maglietta nera dell’uomo ne conteneva a stento i muscoli tatuati, che raccontavano di ore in palestra, arti marziali e diete proteiche. Negli occhi, invece, si intuiva l’odio recondito di chi della violenza ha fatto una bandiera.

«Allora?» disse l’uomo, passandosi una mano sulla barba curata. «Cosa c’è di così importante?».

Monti gli spiegò solo in parte il problema, fornendogli un nome e una fotografia.

«Vedo cosa posso fare», rispose l’uomo, per poi allontanarsi nella notte torrida.

La sera successiva, Diego Fusco uscì dalla palestra di pugilato, buttò la borsa nella Smart e si infilò nel traffico milanese. Aveva appuntamento con una decina di ragazzi del suo gruppo ultras: c’era da organizzarsi, ora che gli arresti avevano fatto saltare gli equilibri di potere nella curva. Tutto ciò che girava attorno allo stadio era rimasto senza padrone, il momento che lui e i suoi uomini attendevano da anni. Il merchandising, lo spaccio di droga, la gestione dei parcheggi e il ricarico sui biglietti generavano milioni di euro ogni anno ed erano ora a disposizione di chi aveva la forza di prenderseli. In un’intercettazione, uno dei vecchi capi arrestati diceva: “Ho una sete di sangue che solo Dio lo sa”. Anche Diego l’aveva, dopo cinque anni a San Vittore e un daspo che l’aveva tenuto lontano dalla curva per troppo tempo. Ma nelle ultime settimane la fortuna gli aveva sorriso nei modi più inaspettati.

Una notte se ne stava tornando a casa, quando, su un marciapiede di City Life, aveva visto due giovani uomini appoggiati a un’auto che si baciavano. Il tatuaggio sul braccio del più alto dei due aveva attirato la sua attenzione: osservandolo bene, nonostante il cappello, Fusco aveva riconosciuto Matteo Nardini, il campioncino che con le sue giocate stava incantando la Serie A. E che appartenesse alla sua squadra non gli importava: certi affari andavano oltre il tifo, e quello, in particolare, poteva rivelarsi una fonte di reddito interessante, soprattutto se devi prenderti una curva e far mangiare un esercito di uomini che ti restino fedeli. Erano prossimi all’azione, ad annientare i rivali per il controllo dello stadio, e il denaro che le foto e il video di Nardini promettevano di rendergli avrebbe accelerato quei progetti.

Anche perché Fusco aveva la furbizia di chi è cresciuto in strada: il suo ricatto non lo aveva praticato a Nardini, che andava lasciato giocare a calcio con la testa libera dai pensieri; né alla società, con cui avrebbe presto avuto contatti per finanziare il tifo organizzato. No, l’uomo giusto da ricattare era il procuratore di Nardini, uno che aveva tutto l’interesse a tenere nascosto il segreto del ragazzo e a guadagnare più soldi che potesse.

Mentre stava camminando verso un bar di Corvetto, pensando a cosa fare dei primi diecimila euro ottenuti da Monti, Fusco sentì un fruscìo alle spalle. Nello stesso istante, una mano gli tappò la bocca e quattro fendenti lo raggiunsero alla gola. Quando si rese conto di essere stato accoltellato, stava già per morire.

«È di Diego Fusco il cadavere rinvenuto la scorsa notte nella zona sud di Milano. L’uomo, già condannato per traffico di droga, era a capo di uno dei gruppi ultras più attivi del calcio italiano. Secondo gli inquirenti, il movente potrebbe essere lo scontro tra fazioni nel tifo organizzato milanese, sorto dopo l’ondata di arresti degli scorsi mesi, che ha portato in carcere i capi storici di San Siro. Si teme ora che l’omicidio di Fusco possa innescare una reazione a catena nel mondo ultras, con vendette e rese dei conti per la presa del potere nelle curve…».

Andrea Monti spense la TV e andò alla finestra dell’ufficio. La tensione gli bruciava lo stomaco, la testa gli doleva. Aveva disdetto gli impegni del pomeriggio per seguire gli aggiornamenti, torturato dal pensiero di quanto era successo.

Doveva solo farlo ragionare…, pensò.

Si sedette sul divano, il viso tra le mani sudate, ma in quel momento, per la prima volta nella giornata, riuscì a pensare con lucidità. Fusco era morto, e con lui veniva sepolto il segreto che aveva scoperto. La carriera di Matteo era salva. Quanto alla vita privata, avrebbe dovuto solo stare più attento. Per allontanare ogni dubbio, Monti già da due settimane gli aveva buttato tra le braccia un’influencer che stravedeva all’idea di un fidanzatino calciatore. Matteo se la sarebbe fatta piacere, almeno per qualche tempo. L’importante era continuare a sostenere la sua immagine di ragazzo bravo, educato ed eterosessuale. C’erano grandi sponsor alla finestra, non bisognava creare scandali.

Decise di scendere in strada a prendere una boccata d’aria, per quanto pessima come quella di Milano: aveva bisogno di uscire dall’ufficio, di stare fuori dalle quattro mura in cui aveva trascorso quel terribile pomeriggio.

Sopra la città il cielo era livido e le nuvole compatte correvano veloci. Il diluvio stava arrivando.

«Avvocato».

La voce di Daniele Penna, seduto sullo scooter, attirò la sua attenzione.

Monti gli si avvicinò, guardandosi in giro. Non gli piaceva che li vedessero insieme.

«Cos’hai combinato? Non intendevo nulla del genere».

«Avvocato, tu non c’entri nulla con questa storia. Io e il mio gruppo avevamo già deciso tutto su Fusco. Stava diventando pericoloso; la curva ce la dobbiamo prendere noi».

«Quindi è stata una coincidenza?».

«Sì, tu hai avuto solo la fortuna che noi lo stessimo già cercando. E un po’ di sfortuna, anche…».

Una folata di vento cambiò l’elettricità dell’aria. «Che intendi dire?».

Daniele Penna gli mostrò uno smartphone senza batteria. «Questo era di Fusco. Gliel’ho preso per controllare cosa stessero organizzando lui e i suoi uomini. Ma scavando nella memoria del telefono ho trovato altre cose interessanti».

Nonostante il caldo, Monti sentì un brivido gelido percorrergli la schiena.

«Non mi avevi detto il motivo per cui Fusco ti stava creando problemi…».

«Daniele…».

«Non ti preoccupare, avvocato. So mantenere un segreto e so anche accontentarmi. Per quindicimila al mese nessuno saprà nulla delle passioni di Nardini».

«Mi ricatti? Dopo tutte le volte che ti ho difeso?».

«Nulla di personale, avvocato: prendersi la curva costa parecchio».

«Se quel video e quelle foto escono…».

«Non usciranno. Prepara i soldi, passo venerdì pomeriggio».

E se andò, mentre la pioggia cominciava a cadere, lasciando Andrea Monti sul marciapiede, con un nodo in gola e l’impossibilità di urlare la sua rabbia.

 

Il premio

Il vincitore sarà annunciato durante la cerimonia di premiazione che si terrà sabato 6 settembre alle 18 in Biblioteca civica a Lignano, ospiti lo scrittore Paolo Roversi e il direttore della collana Gialli Mondadori Franco Forte.

La giuria è formata da Cecilia Scerbanenco (presidente), Franco Forte (direttore editoriale de Il Giallo Mondadori), Luca Crovi (critico letterario e scrittore), Oscar d’Agostino (responsabile pagine Cultura del Messaggero Veneto), Elvio Guagnini (docente emerito Università di Trieste), Piergiorgio Nicolazzini (agente letterario), Donatella Pasquin (Consigliere con delega alla Cultura del Comune di Lignano Sabbiadoro) e Nicoletta Talon (bibliotecaria).

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