La musa di Warhol: «Andy ossessionato dalla perfezione»
Regina Schrecker ricorda l’amico: «È stato il primo influencer. Lavorava come un matto, io e lui eravamo simili»

Quegli occhi li ho già visti: dev’essere un pensiero ricorrente davanti a Regina Schrecker. Dev’essere per quelli o per l’eleganza genetica con cui fluttua in una sorta di tempo rallentato che la sua presenza non passa mai inosservata.
«Sono abituata a certi sguardi», confessa, con un sorriso complice. «Mi succede da quando facevo la modella».
Regina vive con un’etichetta cucita addosso, cinque parole: la musa di Andy Warhol. «Ma non sono stata l’unica, lui faceva ritratti anche a personaggi che non conosceva. E in quasi tutti i casi lui è diventato più famoso di loro».
La musa di Andy Warhol è stata ed è un sacco di altre cose. Ma il suo volto – che il tempo ha soltanto accarezzato – resta per sempre riflesso su (o il riflesso di) quei due ritratti da un metro per un metro che il re della pop art le fece nel 1983, a New York. Uno dei quali fino al 29 giugno è esposto a Belluno nella mostra “Andy Warhol – Love Pop – Icons e Masterpieces” allestita da Gianfranco Rosini.

Si sarà stancata di parlare di Warhol, di sentirsi chiedere dei ritratti, di quegli incontri, della Factory. ..
«No, non mi stanco mai. Mi piace ricordarlo, lo faccio in nome della nostra amicizia».
Nella sua bio su Instagram si definisce designer, ex top model e Lady Universo, icona di stile, amica di Warhol e di Pomodoro, inventrice di moda ribelle e chic. Fra tutte queste cose, quale considera più importante?
«Veramente sono anche poche, non c’è tutto»
È mamma e nonna, è stata moglie: quanta parte della sua vita privata ha dovuto sacrificare per tutto il resto?
«Mai vissuto come un sacrificio, il lavoro è più importante di tutto. I figli devono avere le giuste attenzioni, ma a un certo punto devono volare via».
Ha confessato che a inizio carriera non avrebbe voluto fare la modella ma qualcosa di più importante.
«Ho studiato Storia dell’arte all’università. Ma mi piaceva l’idea di fare una carriera diplomatica. Oggi mi fa sorridere, la diplomazia non è mai stata nelle mie corde. Ho fatto altro e non me ne sono pentita».
Come ha cominciato?
«Studiavo a Firenze, ero al bar, un pomeriggio, e mi si era avvicinato un uomo che sosteneva che dovessi fare la modella. Era il marchese Pucci, io lo conoscevo, mia madre comprava i suoi vestiti. Mi ha chiesto di passare nel suo atelier, ma sapevo già che avrei rifiutato, non mi sentivo adatta. Poi a Milano un amico mi ha proposto di lavorare in tv e due giorni dopo stavo facendo il primo spot per il Carosello, che al tempo era una gran bella vetrina».
Ha lavorato con grandi nomi della televisione...
«Sì, con Dorelli, Jannacci, Chiari e altri. Da lì è stato quasi automatico iniziare a fare sfilate di moda. E mi è piaciuto, anche se ho sempre vissuto quella dimensione in modo molto riservato. Viaggiavo da sola, spesso in auto. E avevo già in mente il passo successivo».
Un suo brand…
«Sì, ma imparare il mestiere non era facile. Così sono andata per tre mesi in una fabbrica di maglieria di Brescia a lavorare. Non mi insegnavano davvero, dovevo rubare i segreti».
Lei ha anche una passione per i costumi e per il teatro…
«Ho iniziato nel 2000 per il teatro all’aperto di Torre del Lago. Ho fatto i costumi per Madama Butterfly, una produzione che 25 anni dopo continua a girare. Mi piace molto».
Com’è stato il suo incontro con Warhol?
«Ero a New York per una sfilata, sapevo di lui e frequentavo la Factory, ci andavo una o due volte all’anno. A lui – ho saputo dopo – piaceva il mio modo di sfilare, anche perché al tempo noi modelle in passerella facevamo un piccolo show, non marciavamo in fila come cavalli. A me piaceva il modo che aveva di esprimere la sua arte. Ci siamo trovati, è sbocciata un’amicizia vera».
Come sono nati i due ritratti che le ha fatto?
«Nel 1983 ero a New York, lui l’ha saputo e mi ha fatto dire di andare nel suo studio il giorno dopo. Dovevo presentarmi senza trucco, senza pettinatura e indossare qualcosa che potesse scoprirmi il décolleté. E così è stato, il truccatore mi ha fatto tutta bianca, come la gouache dei quadri. Poi è arrivato Andy con la sua Polaroid – girava sempre con quella in mano – ha sistemato le luci e ha iniziato a fotografarmi. Pensavo che fosse finita lì. Invece qualche tempo dopo mi ha mandato un ritratto, l’altro me l’ha portato a Milano tre anni dopo».
Esiste una diffusa interpretazione secondo cui la pop art sia ironica o addirittura polemica verso la società dei consumi. Ma c’è anche chi dice che fosse integrata al sistema culturale prevalente. Warhol considerava la critica intorno alle sue opere?
«La verità è che la pop art piace a tutti. E Warhol era veramente ironico, ma anche autocritico. Lui voleva essere un genio. Veniva da un’infanzia povera, era ambizioso e determinato, anzi quasi ossessionato dal proposito di sfondare. Lavorava moltissimo, non smetteva finché una cosa non gli piaceva. In questo siamo simili».
La bibliografia su Warhol è vasta. Tra gli ultimi saggi c’è quello di un sacerdote cattolico, Michele Dolz, che si intitola “Andy Warhol nascosto” e che mette in risalto la sua fede. È vero che pregava e faceva beneficenza?
«Che facesse tanta beneficenza è vero. Che pregasse non lo so. («In realtà – aggiunge Rosini – gli piaceva meditare e se ne andava nelle chiese per cercare il silenzio»).
Vedeva già la trasformazione in corso nel mercato dell’arte? Aveva intuito i cambiamenti che la tecnologia ha poi portato?
«Lui era un genio, vedeva il futuro. E sì, aveva già intuito tutto, anche perché lui nasceva come grafico».
Cosa avrebbe pensato, secondo lei, dei social network? Quella famosa frase dei 15 minuti di gloria che non si negano a nessuno in qualche modo li aveva prefigurati…
«Li avrebbe sfruttati e alla grande. È stato il primo influencer. (E - sostiene Rosini «oggi avrebbe 120 milioni di follower»).
Davvero Warhol pensava a se stesso come a un’icona inseparabile dalla propria arte? Era, in questo senso, un uomo concreto o astratto?
«Era estremamente concreto. Pensate alle sue prime opere, alla Campbell’s Soup. Era un modo per dire agli americani che potevano avere tutto. Ma era anche molto ironico. Quando è venuto a Milano l’ho accompagnato in Rai per un’intervista. Gli hanno chiesto: cosa pensa della vita? E lui ha risposto: chocolate cake, torta di cioccolato. Era spiazzante».
Lei ha definito la sua moda bella trasgressiva e democratica: lei invece come si definirebbe con tre aggettivi?
«Sono troppo onesta. E sono vera. D’altra parte, perché fingere? Tanto si capisce sempre se uno finge». —
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