"Il mostro”, la serie sul mistero del Mostro di Firenze
Al termine c’è l’entrata in scena di Pacciani, semplicemente evocata, per un finale aperto come il caso stesso

Il mostro di Firenze non ha un’identità, né fisica, né storica, né processuale, restando l’indagine incompiuta più lunga della storia criminale italiana, sul serial killer più feroce e perverso, e su un incubo che non smette di alimentare paure, supposizioni e voglia di verità.
Nella serie “Il mostro” di Stefano Sollima è una sagoma nera, un profilo, che nella sua accezione psicologica ha però connotati molto chiari e distinguibili: è un uomo che odia le donne, le uccide e le brutalizza, umiliandole da vive e da morte.
Il tema della violenze di genere emerge profondamente e con disarmante attualità nelle quattro puntate presentate ieri alla Mostra del cinema di Venezia e in onda dal 22 ottobre su Netflix, che raccontano la parte meno nota del caso, ovvero cosa accadde prima dell’arresto di Pacciani e del clamore mediatico attorno ai compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti (gli unici due condannati, ma solo per parte degli otto duplici omicidi, compiuti dal mostro di Firenze tra il 1968 e il 1985).
Si tratta della cosiddetta “pista Sarda” che ruota attorno al primo delitto, quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, avvenuto il 21 agosto 1968, subitaneamente classificato come reato passionale, perpetrato dal di lei marito, Stefano Mele, reo confesso.
Ma la realtà non è quella che sembra e nel 1982, un sostituto procuratore donna, Silvia Della Monica, decide di provare a sbrogliare la matassa cercando il bandolo in altri presunti autori del primo massacro di coppia firmato da una beretta calibro 22, che non si è mai trovata e resterà l’unica arma usata dal mostro. Sollima e Leonardo Fasoli (coautore della serie), indagano allora, episodio per episodio, attraverso un gioco di incastri e di versioni che si sovrappongono, la storia, l’agito, e la personalità, dei quattro possibili “mostri”, ovvero i quattro indagati per l’omicidio Locci – Lo Bianco: oltre a Stefano Mele, il fratello Giovanni Mele, e gli amanti della donna, i fratelli Francesco e Salvatore Vinci.
«Raccontando l’ambiente socioculturale da cui provenivano questi uomini – spiega Fasoli – ci siamo resi conto che erano tutti inseriti in un sistema patriarcale e maschilista, e avevano tutti una caratteristica comune: abitualmente maltrattavano le donne, considerandole oggetti di loro proprietà, da punire al minimo sussulto di disobbedienza. I tempi narrati sono quelli tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma leggendo le cronache di oggi sui femminicidi, possiamo dire che questa concezione violenta e retrograda, portata dagli indagati di allora, sia presente ancora oggi».
Le origini cronachistiche del mostro di Firenze si sovrappongono allora alle origini metafisiche del male, seminato nella miseria umana, nella sudditanza all’immagine sociale e nell’incapacità di gestire frustrazioni e rabbia, rendendo chiunque potenzialmente un mostro.
«Abbiamo affrontato il caso con rigore, onestà e serietà – sostiene Sollima – avvalendoci di un consulente storico, tra più grandi esperti del mostro di Firenze, Francesco Cappelletti, che sul set ci aiutava a ricreare la scena del crimine esattamente com'era stata definita dalle perizie balistiche e mediche. Abbiamo poi parlato con Silvia Della Monica e Natalino Mele, il figlio di Barbara Locci, che si trovava nell'auto con la madre e Lo Bianco la notte dell’omicidio, e abbiamo avuto accesso alle carte processuali e d’indagine per riportare i fatti quali sono, evitando sensazionalismi e tesi precostituite, che probabilmente sono state il più grande vulnus dell’inchiesta, proponendo al pubblico riflessioni e non risposte».
Una regia sofisticata ma a servizio del racconto, un montaggio congeniato per associare cause ed effetti pur lontani nel tempo e nello spazio, e un’impeccabile ricostruzione storico-scenografica che attraversa trent’anni (dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta), stabiliscono quella giusta distanza tra lo spettatore e le atrocità rappresentate, scongiurando il rischio di morbosità e scopofilia. La serie si chiude con l’entrata in scena di Pacciani, semplicemente evocata, per un finale aperto, com’è il caso stesso, a ricordarci che c’è ancora spazio per un “dopo”, non solo seriale, ma anche investigativo.
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