“A House of Dynamite”, Bigelow mette in scena il dramma dell’atomica

Il film racconta il dramma in una Casa Bianca sotto attacco. La regista: «Continuiamo a pensare che distruggere il mondo sia una difesa»

Marco Contino
La regista Kathryn Bigelow
La regista Kathryn Bigelow

Il primo, potente, ruggito della 82esima Mostra del Cinema di Venezia arriva da Kathryn Bigelow e dal suo nuovo film “A House of Dynamite”. La regista americana (prima donna a vincere un Oscar per la miglior regia con “The Hurt Locker”, presentato proprio al Lido nel 2008) porta sullo schermo l’incubo atomico in un serratissimo thriller politico … senza azione.

“The House of Dynamite”, infatti, racconta le drammatiche ore vissute nelle stanze del potere della Casa Bianca, del Pentagono e del centro di comando che controlla l’intero arsenale nucleare delle forze armate statunitensi, quando i sistemi di difesa rilevano un missile, di provenienza sconosciuta (Corea del Nord, Russia?), che sta per abbattersi su Chicago.

Bigelow adotta tre diversi punti di vista (che si intersecano tra loro, si moltiplicano e si richiamano di continuo sugli schermi delle situation room e sui cellulari di tutti coloro che sono coinvolti nel piano di difesa): quello di Olivia Walker (Rebecca Ferguson) nella task force di Washington, quello di un altro giovane membro dello staff della Casa Bianca (Gabriel Basso) e, infine, del Presidente degli Stati Uniti (Idris Elba), chiamato a decidere se attendere o contrattaccare, scatenando la fine del mondo.

All’interno di questi tre quadri, introdotti da altrettanti capitoli, si muovono freneticamente altri personaggi (dal Segretario della Difesa al Capo di Stato Maggiore, dai soldati agli esperti di politica estera) che realizzano come anche le procedure e i protocolli più studiati, oggetto di centinaia di esercitazioni, siano, infine, lasciati alle decisioni, fallibili, degli uomini.

Bigelow restituisce, attraverso una messa in scena lisergica ed iperrealistica (anche grazie al lavoro dello sceneggiatore Noah Oppenheim, ex giornalista della NBC, dal cognome che ricorda, ironicamente, proprio quello del padre della bomba atomica), quel senso di guerra permanente che irrora le vene del suo cinema adrenalinico e muscolare, in cui la violenza diventa una esperienza totalizzante.

Da quell’“armadietto del dolore” che fu “The Hurt Locker”, in cui il sergente William James, sminatore di bombe in Iraq, conservava i pezzi di una vita irrimediabilmente intossicata dal conflitto, alla caccia - ossessiva e traumatica, fisica e insieme fantasmatica - di Bin Laden (Zero Dark Thirty), fino a “Detroit” che spostava il campo di battaglia dentro i confini della società razzista americana, la guerra è la dimensione di un oggi che si interroga non sul “se” ma sul “quando” la tessera di un domino innescherà una irrimediabile reazione a catena.

Traghettando l’umanità in quel “ The Day After” che l’America imparò a immaginare con sgomento, in piena Guerra Fredda, con il film televisivo del 1983 sugli effetti devastanti di un attacco nucleare. Dopo un effimero periodo di dismissione degli arsenali, ora il mondo corre veloce verso la propria autodistruzione.

Bigelow, accolta da una grande ovazione in conferenza stampa, ribadisce il significato del titolo di questo suo film che spariglia le carte del Concorso. «Viviamo in una casa piena di dinamite. Ne siamo consapevoli, eppure continuiamo a pensare che distruggere il mondo sia un metodo di difesa.

Mi sono domandata il perché, mostrando anche l'isolazionismo di ogni Stato, la vulnerabilità del nostro arsenale nucleare e interrogandomi su chi siano le persone che se ne prendono cura e che, nel film, sono chiamate a dare risposte rapidissime. Dobbiamo essere più informati su questi temi e avviare una discussione sulla non proliferazione delle armi nucleari. Questa è la mia speranza».

C’è la guerra globale nel film (Oppenheim ricorda che “oggi ci sono 9 paesi al mondo che hanno armi nucleari sufficienti a distruggere più volte l’umanità; il mondo è sempre instabile, una riserva di armi che potrebbe porre fine alla vita: è un miracolo che non sia ancora successo”), ma ci sono anche le debolezze e gli indugi personali che diventano resa disperata nel gesto sconcertante di uno dei personaggi.

Il finale non spiega, non mostra, non cede alla oscenità e alla morbosità delle conseguenze delle scelte dei singoli. Riflette l’incubo delle scelte sui volti degli spettatori a cui la regista sembra porgere la domanda “noi cosa avremmo fatto?”, lasciando che l’ambiguità dell’epilogo metta radici nelle coscienze e apra gli occhi su tutto ciò che non vogliamo vedere. Illudendoci che quella casa di dinamite che è il mondo non esploderà mai.

Riproduzione riservata © il Nord Est