Lucia Goracci al Festival del Coraggio: «Illuminare chi rischia davvero»
La giornalista inviata di guerra racconta a Cervignano il suo impegno tra Medioriente e conflitti globali, parlando di verità, propaganda e coraggio femminile

Al Festival del Coraggio di Cervignano oggi, domenica 19 ottobre, alle 21 al Teatro Pasolini sarà ospite la giornalista Lucia Goracci in dialogo con Walter Skerk. L’incontro, dal titolo “L’illusione della verità”, ci porterà dentro la complessa esperienza di una delle più stimate inviate di guerra, da Beirut all’Afghanistan, dalla Siria ai territori palestinesi, attività che le è valsa diversi riconoscimenti.
“Illuminate chi rischia davvero…Parlate di loro, loro sono la notizia, non noi”. Questo suo appello racchiude il suo modo di fare giornalismo. Chi ha bisogno di voce oggi?
«Feci questa riflessione quando raccontai l’azione di disturbo sul nostro lavoro in Cisgiordania. In un tempo in cui vediamo tutto da lontano, credo in un giornalismo immersivo che va, che torna, che rimane. Nei territori palestinesi ci devi andare per capire il clima rischioso di impunità. La notizia non sono io. Sono le immagini, le persone che vivono la guerra. È fondamentale conquistare la loro fiducia, creare avvicinamento. L’empatia non ha confini geografici, culturali, linguistici ed emozionali».
I giornalisti in prima linea rischiano la vita, ma anche di venire strumentalizzati in un frullatore impazzito, in cui si dice tutto e il contrario di tutto?
«Assolutamente. Nel caso di Gaza c’è un elemento di asimmetria di un racconto che può avvicinarsi ai luoghi di Israele, ma non ai luoghi di Gaza. È la prima guerra di Gaza che racconto da fuori. Non esserci ha pesato, a fronte di una contro-narrativa che rischia di essere considerata buona quanto la narrativa di chi dentro Gaza ci sta. Mi riferisco ai giornalisti palestinesi, che abbiamo sostenuto con raccolta di firme. Penso alla conferenza in cui Netanyahu dichiarò che non si soffriva la fame a Gaza. Il racconto dei giornalisti ucraini del loro conflitto ci sembrava non discutibile, mentre quello dei palestinesi ha generato sospetto. Vogliamo entrare a Gaza non perché non ci fidiamo del loro racconto coraggioso, ma perché lo vogliamo affiancare, rafforzare, proteggere».
C’è il rischio di confusione tra conoscenza e propaganda?
«Sì. Penso all’esplosione sotto casa di Ranucci, all’importanza di un giornalismo d’inchiesta che scava, che approfondisce, che fa un racconto progressivo. Un giornalismo che non cerca la verità – la lascio ai filosofi, ai religiosi, ai politici – ma legge i fatti, con rigore, tanto da risultare scomodo. Analizziamo i fatti alla luce dell’esperienza e della “terzietà”, raccontando le vittime anche in territorio nemico, anche quando non ci assomigliano. Contrapposto a questo, c’è il commento di opinione che scivola nella propaganda, ci sono le verità dispensate, inventate, posticce, distribuite in rete con la stessa facilità con cui si distribuisce l’informazione indipendente appurata».
La pace è un’illusione?
«La pace è sempre un atto di coraggio. Firmare un accordo è un’apertura di credito al nemico, che, nel processo politico di ricostruzione di fiducia, diventa ex nemico. A Trump va riconosciuto di aver fermato l’offensiva israeliana e di avere riportato indietro gli ostaggi ancora in vita e una parte di quelli rimasti uccisi il 7 ottobre o a Gaza. Ma la questione è complessa. È solo l’inizio di un lungo processo che dovrà portare una forza di stabilizzazione internazionale dentro la striscia, un governo di tecnocrati palestinesi. Una cosa è fermare il conflitto, altra cosa è costruire la pace. L’impresa politica sarà portare i due popoli a parlarsi, perché il 7 ottobre e quello che è accaduto dopo hanno alimentato un odio reciproco, come mai prima d’ora».
Da vent’anni segue le principali guerre mediorientali. Come hanno agito dentro di lei le immagini che si sono stratificate nel tempo? Cosa chiedono?
«È un universo umano, fatto dai protagonisti dei miei racconti e dalle persone che mi hanno affiancato e aiutato. Un universo che mi ha fatto capire che la pace non può prescindere dalla ricerca di giustizia, dal rimettere le cose a posto, almeno finché rimarranno generazioni che ricordino quelle ingiustizie, perché i torti non riparati sono preludio di nuove insofferenze. Il giornalismo può rendere giustizia a chi ha meno voce, illuminare le periferie, tornare sui conflitti dimenticati».
Che donne ha incontrato?
«Donne toste. Penso alle donne iraniane. La donna unisce la lotta esterna a quella tra le pareti domestiche, per diritti che l’oscurantismo rischia di soffocare. Ricordo la battaglia quotidiana delle ultime giornaliste afghane nel tentativo di continuare a fare il loro lavoro. Ora sono diaspora in Europa. Le donne incarnano una resistenza civile e attiva. La loro forma di coraggio è quella che amo di più: l’essere capitate in un contesto in cui fare un passo indietro ti salva la vita, ma tu quel passo indietro non lo vuoi più fare, perché il progresso è davanti a te».
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