Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 23 ottobre
“Bugonia”, la nuova paranoia del regista greco Yorgos Lanthimos. Una favola sarda (La vita va così) firmata da Riccardo Milani. “Frankenstein” secondo Guillermo Del Toro

Yorgos Lanthimos dirige ancora una volta Emma Stone e Jesse Plemons per raccontare le follie millenariste del nostro tempo, tra lotta di classe e toni surreali. Il giochino tiene ma fino a un certo punto …
Riccardo Milani e la storia vera di un pastore sardo simbolo di resistenza contro la speculazione immobiliare. Pilota automatico per una commedia che non osa mai. “La vita va così” è lo specchio del nostro cinema italiano: “va così …”, difficile aspettarsi qualcosa di diverso.
Guillermo Del Toro ama i suoi mostri. E non poteva non cimentarsi con un classico come “Frankenstein”. Il suo è un cinema coerente (la vera mostruosità è, spesso, quella umana) ma qui esagera con AI ed effetti speciali.
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Bugonia
Regia: Yorgos Lanthimos
Cast; Emma Stone, Jesse Plemons, Aidan Delbis
Durata: 120’
Con un titolo curioso e un po’ elitario Yorgos Lanthimos prende il mito della bugonia come metafora di una condizione contemporanea che molti auspicano, spesso prerogativa dei cosiddetti complottisti.
Nella tradizione classica la bugonia simboleggiava la rigenerazione, anche sociale, al punto che Virgilio nelle Georgiche la identifica con uno sciame di api che esce dalla carcassa di un toro.
Il titolo dell’ultimo film di Yorgos Lanthimos (presentato a settembre a Venezia) viene adattato alle follie millenariste di due marginali, Teddy (Jesse Plemons), la mente dell'operazione, e l’amico tontolone Don (Aidan Delbis), i quali, ossessionati dalle teorie complottiste, rapiscono Michelle, influente amministratrice delegata di una multinazionale farmaceutica (Emma Stone), convinti che sia un’aliena decisa a distruggere il pianeta Terra.
I due giovani però si scontrano con il carattere tosto della ceo, che sta al gioco e si immedesima nel ruolo al punto da confondere i due giovani. Partendo dal problema effettivo e molto sentito della morìa delle api, il film mostra a quali estremi possa giungere il cosiddetto effetto eco, ovvero l’autoconvinzione che le teorie apocalittiche generano sulle menti più deboli.
Lanthimos condisce “Bugonia” con i suoi classici ingredienti e il film, finché mantiene un linguaggio che alterna surreale e lotta di classe, sindrome di Stoccolma e satira dei luoghi comuni, conferma il dinamismo narrativo del regista greco e della sua straordinaria attrice feticcio Emma Stone, qui totalmente rasata dai due pazzoidi per paura che i capelli la possano far identificare dagli altri alieni.
Ma con lo scorrere del tempo il film, che è il remake di una commedia coreana di fantascienza del 2003 (“Save the green planet”), assume contenuti quasi splatter, ricadendo banalmente in quegli stessi luoghi comuni che stigmatizza nella prima parte del film, restando lontano dalla novità e dalla freschezza di due anni fa, quando vinse il Leone d’oro con “Povere creature!”. (Michele Gottardi)
Voto: 6
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La vita va così
Regia: Riccardo Milani
Cast: Giuseppe Ignazio Loi, Virginia Raffaele, Aldo Baglio, Diego Abatantuono
Durata: 118’

Riccardo Milano ha scelto, da un po’, di raccontare al cinema dei “mondi a parte”. L’ambiente carcerario in “Grazie ragazzi”, un paesino di montagna abruzzese spopolato e sferzato dal freddo (“Un mondo a parte”, appunto) e, con il suo ultimo film (La vita va così), una storia di (autentica) resistenza in un lembo della costa meridionale sarda. Qui, un pastore che, nella realtà, si chiamava Ovidio Marras, si è opposto, per anni, alla costruzione di un resort di lusso, rifiutando cifre da capogiro per cedere il suo furriadroxiu (la casa ovile dove ogni sera faceva ritorno) a un grande gruppo imprenditoriale. Ed è diventato il simbolo della lotta contro la speculazione edilizia in Sardegna.
“La vita va così” si ispira a quella vicenda.
Nella finzione, il rifiuto del protagonista Efisio Mulas (un vero pastore sardo, Giuseppe Ignazio Loi: la sua genuinità è il vero punto di forza del film) di vendere quel piccolo pezzo di paradiso a un potente immobiliarista di Milano (Diego Abatantuono) provoca la rabbia della piccola comunità di Bellasamanna (nome di fantasia del paese di Efisio) che, nella realizzazione del complesso alberghiero, vede una opportunità di lavoro, la cui endemica mancanza impedisce loro di capire l’importanza e la profondità della decisione del pastore di non arretrare di un passo.
Alla fine, anche i “nemici” (il capo cantiere interpretato da Aldo Baglio) e gli affetti più cari (la figlia Francesca, cui da volto, corpo e dialetto Virginia Raffaele) impareranno che avere una casa a cui fare ritorno è un bene inestimabile. Milani firma una commedia di buoni sentimenti: inserisce il pilota automatico senza avere mai il coraggio di mescolare zucchero e fiele.
Il dramma è sempre disinnescato, l’alleggerimento (con le classiche “scenate” di Baglio) uno scudo quasi impenetrabile alla riflessione più strutturata che finisce per immiserire le figure dell’imprenditore e della giudice integerrima (Geppi Cucciari). In Francia, una storia simile (“Il Mohicano”) diventa una sorta di western, uno scontro culturale identitario; in Spagna (“As Bestas”) una potentissima metafora di sopravvivenza.
Nel cinema di casa nostra la tentazione di appiattire tutto sotto una patina di buone intenzioni (qui, almeno, Milani evita le derive ridanciane di “Un mondo parte” per una drammaturgia più composta) è sempre troppo allettante. E il rifugio della commedia troppo comodo per allontanarsene. Peccato. Il cinema italiano va così … (Marco Contino)
Voto: 5
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Frankenstein
Regia: Guillermo del Toro
Cast: Oscar Isaac, Jacob Elordi, Christoph Waltz, Mia Goth, Felix Kammerer, Charles Dance, David Bradley, Lars Mikkelsen, Christian Convery
Durata: 149’

Esce l’ennesimo adattamento del classico racconto di Mary Shelley su Victor Frankenstein, uno scienziato brillante, ma egocentrico che dà vita a una creatura, in un mostruoso esperimento che alla fine porta alla rovina sia del creatore e forse anche della sua creazione.
La storia è nota: una spedizione di marinai bloccati al Polo Nord, a metà Ottocento, raccoglie un uomo ferito, in fuga da una mostruosa creatura che uccide chiunque lo avvicini.
L'uomo è Victor Frankenstein, scienziato ossessionato dalla possibilità di vincere sulla morte, al punto da ridare la vita a un essere umano assemblato con pezzi di cadaveri. Ma la creatura si rivela rozza e violenta e Victor decide di eliminarla scatenando la sua vendetta.
Ma esiste anche una seconda verità, quella del mostro. Perché da sempre i protagonisti di Guillermo del Toro sono mostruosi, dentro o fuori, più spesso fuori. In questo i suoi mostri ci pongono domande esistenziali, tenere e selvagge insieme, «come solo una mente giovane può porsi e a cui solo gli adulti e le istituzioni credono di poter rispondere. Per me, però, solo i mostri detengono la risposta a tutti i misteri. Sono loro il mistero», ha ricordato il regista. Il quale compie un’operazione molto filologica rispetto al romanzo di Mary Shelley, sia nella lettura del testo che nell’adattamento, sin nei particolari del finale.
Essendo una produzione targata Netflix (e per questo nella sale solo due settimane), il prodotto finale doveva essere universale. E così è, sia quando mescola lo sguardo complice verso il mostro (e le minoranze di qualsiasi genere, sesso o natura esse siano), allineando le due versioni della storia, sia quando mostra le complicazioni e le sconfitte della scienza positiva che si crede perfetta, più che divina. Ma il regista ricade nello stesso errore di Victor Frankenstein, innamorandosi a tal punto della sua creatura, da esagerare in AI ed effetti speciali digitali della CGI. Ne risulta un prodotto altamente spettacolare, godibile anche se destinato a platee popolari, disseminato qui e là di elementi interessanti lasciati irrisolti o poco sviluppati, come il continuo rimando al doppio, dalla Creatura, alter ego dell’Uomo, allo specchio, alla fotografia (Michele Gottardi).
Voto: 6,5
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