Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 13 marzo

Kung Fu all’amatriciana per il nuovo film di Gabriele Mainetti, “La città proibita”. Arriva in sala l’Orso d’oro di Berlino, “Dreams” di Dag Johan Haugerud. Giannini-Elodie-Scarpetta si abbandonano al “Gioco pericoloso” di Lucio Pellegrini. Benoît Jacquot si ispira a Simenon per “Il caso Belle Steiner”

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "Dreams"
Il film "Dreams"

Gabriele Mainetti ha stoffa. “La città proibita” innesta il genere delle arti marziali nel cuore multietnico dell’Esquilino, incrociando destini lontanissimi tra loro. C’è tanto (forse troppo): ambizioso ma discontinuo. Dag Johan Haugerud conclude la sua trilogia sui sentimenti, i rapporti umani e le norme sociali. “Dreams” racconta com’è innamorarsi. 

Arte moderna, noir, melodramma, thriller. Lucio Pellegrini mette in scena il triangolo amoroso tra Giancarlo Giannini, Elodie e Eduardo Scarpetta. “Gioco pericoloso”… in tutti i sensi.

Guillaime Canet e Charlotte Gainsbourg sono i protagonisti del thriller “Il caso Belle Steiner” tratto dal romanzo "La morte di Belle" di Georges Simenon.

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La città proibita

Regia: Gabriele Mainetti

Cast: Yaxi Liu, Enrico Borello, Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Chunyu Shanshan, Luca Zingaretti

Durata: 138’

Il film "La città proibita"
Il film "La città proibita"

Il terzo film di Gabriele Mainetti dopo “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Freaks Out” si sarebbe dovuto intitolare “Kung Fu all’amatriciana”. O, almeno, così era negli originari piani di lavorazione. È uscito, invece, con il titolo “La città proibita” come se il regista, sin dall’inizio, volesse chiarire qual è il cuore di questo suo nuovo lavoro.

Che, certamente, asseconda la passione di Mainetti per Bruce Lee e il gongfupian (il genere cinematografico incardinato sulla vendetta a colpi di arti marziali), ma è anche una “immersione” in una Roma nascosta, attraversata da inquietanti gallerie sotto la superficie multietnica di Piazza Vittorio: una “città proibita”, appunto, per i traffici che cela, lo strozzinaggio che la soffoca, le case-dormitorio di immigrati sfruttati.

Ed è proprio da una proibizione che il film prende le mosse, risalendo al 1995 quando in Cina la politica di controllo delle nascite impediva alle famiglie di avere più di un figlio.

I genitori di Mei (Yaxi Liu), però, hanno avuto un’altra bambina prima di lei, Yun che, diventata adulta, parte per l’Italia per guadagnare i soldi necessari a far uscire dall’ombra la sorella minore, pagando la multa imposta dal governo cinese. La scomparsa di Yun costringe Mei a raggiungere clandestinamente Roma dove, dietro (anzi sotto) la facciata del ristorante cinese “La città proibita”, Mr. Wang (che deve fare i conti con una diversa ferita familiare) gestisce un fiorente giro criminale e di prostituzione.

La vendetta di Mei, furia delle arti marziali, per la sparizione della sorella incrocia il destino di Marcello (Borello), un mite cuoco che lavora nel ristorante del padre Alfredo (Zingaretti), di cui non ha più notizie da quando è scappato con una giovane cinese dopo 30 anni di matrimonio con Lorena (Ferilli) che ancora si strugge per lui. Intanto Annibale (Giallini), il boss del quartiere legato alla storia del locale di Alfredo, cerca di arginare quella che considera un’invasione cinese in casa propria.

Già dalla trama molto articolata si intuisce come “La città proibita” scorra lungo tanti rivoli che Mainetti (insieme agli sceneggiatori di “M. Il figlio del secolo”, Stefano Bises e Davide Serino) cerca di far confluire in unico flusso dentro la cornice di genere. Che ha, indubbiamente, il suo fascino grazie anche al talento del regista nel costruire le sequenze di kung fu (notevole l’ingresso in scena di Mei alla “Kill Bill”), anche se la sensazione è quella di un film che non sempre ha il controllo su tutte le sue storie.

E, in fondo, l’abbondanza e l’ambizione di contenere così tante suggestioni è il limite che Mainetti ha sostanzialmente compensato molto bene ai tempi di “Jeeg Robot” grazie all’entusiasmo per novità del genere superomistico di borgata e dal quale, invece, si è fatto cannibalizzare in “Freaks Out”.

Qui siamo in mezzo al guado, con tanta carne al fuoco: i legami tra padri, madri, figli e sorelle, la criminalità di grande e piccolo cabotaggio, i combattimenti (merito soprattutto della protagonista, la stunt Yaxi Liu, già controfigura nel live-action di “Mulan”), le canzoni di Mina, De André e Patty Pravo, le sacche di resistenza culturale alla Asterix e Obelix, rovine antiche, la Bocca della Verità, “Vacanze romane” e, a suggellare e sigillare il tutto, una amatriciana da mangiare con le bacchette.

La contaminazione è coraggiosa ma discontinua, ambiziosa ma non sempre domabile, seducente ma sussultoria. Su questi limiti (e su una romanità che vorrebbe essere meno trita ma che, per la verità, è ancora molto ingombrante) Mainetti può ancora lavorare molto, ma la sua stoffa e il desiderio di osare oltre certi, endemici, confini del cinema italiano, non si discutono. (Marco Contino)

Voto: 6,5

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Dreams

Regia: Dag Johan Haugerud

Cast: Ella Øverbye, Selome Emnetu, Ane Dahl Torp, Anne Marit Jacobsen

Durata: 110’

Il film "Dreams"
Il film "Dreams"

Secondo film di una trilogia tematica sui rapporti umani cominciata con “Sex” e che si concluderà con “Love” (anch’esso del 2024, ma in uscita ritardata a breve) “Dreams” ha vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino 2025.

È la storia di Johanne, diciassette anni e un mondo interiore fatto di emozioni e desideri inespressi. Quando conosce la sua nuova insegnante di francese, il confine tra le proprie proiezioni e la realtà vissuta si fa sempre più labile, arrivando ad innamorarsene. Per dare ordine ai sentimenti, Johanne inizia a scrivere un diario dettagliato, trasformando il proprio vissuto in parole che pulsano di passione, paura e scoperta.

Per provare a togliersi questo peso da dentro o anche solo per cercare qualche complicità, Johanne fa leggere il diario alla nonna, poetessa, che a sua volta lo gira alla madre, che però, a differenza della più anziana, ha una prima reazione di sgomento. Ma presto entrambe si rendono conto che le parole di Johanne hanno una forza letteraria, degna di pubblicazione. Il diario diventa così il punto di partenza per un confronto generazionale su amore, desiderio e libertà di espressione, che coinvolge in modo opposto la stessa docente e le sue amiche.

Film molto al femminile (gli uomini sono totalmente assenti o al massimo così eterei da sparire in breve), esempio della realtà sessualmente libera delle società nordiche a dispetto del matriarcato mediterraneo, “Dreams” ha un percorso di introspezione delicato e intelligente che tuttavia patisce una certa verbosità, accentuata dalla voce fuori campo della protagonista in veste di narratrice.

Non ha invece concessioni al voyeurismo e dunque lavora per ellissi, in levare, piuttosto che aggiungere o spiegare con le immagini la vera natura della relazione, lasciandola nel border line del detto-non detto tra sogno e realtà.

Forse sono solo sogni, appunto, come dice il titolo, sogni di un’adolescente che consolida sensazioni al punto da pensare di viverle. O forse no. Al regista, e a noi con lui, non interessa sapere come è andata, ma di capire da dentro Johanne e, più in generale, le diverse anime della sessualità. In attesa del terzo capitolo, “Love”, di prossima uscita. (Michele Gottardi)

Voto: 6,5

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Gioco pericoloso

Regia: Lucio Pellegrini

Cast: Giancarlo Giannini, Elodie, Eduardo Scarpetta, Tea Falco, Elena Lietti, Iaia Forte

Durata: 103’

Il film "Gioco pericoloso"
Il film "Gioco pericoloso"

C’è un problema di scrittura e di equilibrio nell’ultimo film di Lucio Pellegrini, “Gioco pericoloso”. Il regista, da sempre a proprio agio con il registro della commedia sia al cinema che in tv, aveva sorpreso per il “detour” cupo e dissonante nella serie “Il miracolo”.

Nel suo nuovo film, Pellegrini torna in qualche modo al thriller con l’ambizione di destrutturare la liturgia classica di un triangolo amoroso attraverso incursioni nel noir, nel melodramma e nella più recente narrazione del mondo ambiguo dell’arte contemporanea di cui, in qualche modo, cerca di replicare le contraddizioni e quelle tensioni di fascino, incomprensione e repulsione.

Tanti ingredienti che la sceneggiatura (firmata insieme a Elisa Fuksas) fatica, però, a dosare, affidandosi più alle atmosfere e a una fotografia non priva di qualche interessante suggestione, che ad una autentica consapevolezza nella costruzione dei personaggi e di un intreccio che ripara, da ultimo, nella allucinazione e nello straniamento, traducendosi in un gioco, appunto, pericoloso.

Non tanto per l’incoerenza (che potrebbe anche trovare una giustificazione nello switch finale), quanto, piuttosto, per la sua pretestuosità e la concettualità a tavolino.

Così il canonico thriller domestico - che ruota intorno all’incontro casuale (oppure no?) tra Carlo Paris (Giannini), scrittore e critico d’arte impantanato nell’ispirazione, e Peter Drago (Scarpetta), un giovane artista ambizioso e iconoclasta che sembra condividere con la moglie del primo (Elodie), ballerina e coreografa, un passato oscuro - flirta, in modo spesso impacciato, con le arti performative, il mistero di una ragazza scomparsa sul Circeo, un voyeurismo (appena pruriginoso) nella villa a specchi della coppia e qualche digressione melò, senza mai imboccare, con sicurezza, una strada.

Se non quella della suggestione, della composizione statica (la sequenza delle dune), di un occhio che guarda ma non osserva. Certo, l’angolo prospettico inedito per il cinema italiano (producono Matteo Rovere e Sidney Sibilia cui va ascritto il merito di sperimentare percorsi poco battuti) è un punto a favore del film che, tuttavia, nella sua fiammeggiante ambizione di farsi contemplare come fosse un’opera d’arte, finisce per bruciarsi. (Marco Contino)

Voto: 5

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Il caso Belle Steiner

Regia: Benoît Jacquot

Cast: Charlotte Gainsbourg, Guillaume Canet, Kamel Laadaili, Pauline Nyrls

Durata: 100’

Il film "Il caso Belle Steiner"
Il film "Il caso Belle Steiner"

“Il caso Belle Steiner” è un omaggio a Georges Simenon, e non solo per il fatto che il film di Benoît Jacquot è tratto dal suo romanzo “La morte di Belle” (in Italia edito da Adelphi): tutto respira le atmosfere tra seduzione e inganno, tra mistero e verità nascoste che hanno reso celebre la letteratura di Simenon.

Qui è addirittura citato nell’intitolazione del liceo cittadino dove studia Belle, ragazza adolescente ospite di amici della madre per un anno, che viene trovata morta strangolata al mattino.

Pierre (Guillaume Canet), che insegna allo stesso liceo, e la moglie Cléa (Charlotte Gainsbourg), ottica del luogo, non si sono accorti di nulla: lei era fuori ed è rientrata tardi, lui invece, misantropo e solitario docente di matematica, è rimasto tutta la sera nel suo studio ad ascoltare musica sacra e a correggere compiti, registrando senza particolare emozione il rientro della ragazza da una serata con i suoi amici. Chiaro che tutti i sospetti si indirizzino immediatamente su di lui, anche perché è un anaffettivo mica da poco, nulla lo scompone e non solo per autodifesa, mentre tutti lo additano come femminicida.

Trasportandolo nella provincia francese o belga che sia, Benoît Jacquot ha tolto la vicenda da una collocazione lontana – il romanzo era ambientato nel Connecticut dove Simenon era vissuto per un po’ di tempo – riportandola a una dimensione più contemporanea.

Centrale era nel libro l’attenzione mediatica verso la morte della giovane, che qui non viene meno, anzi nel film giocano un ruolo fondamentale i social e i media online, che creano colpevoli e innocenti in un batter di ciglia. La stessa figura di Belle viene passata al setaccio: non era una santarellina, tanto da meritarsi l’appellativo di "regina della notte", molto attiva su TikTok dove postava “l'outfit del giorno”, ma Pierre al contrario non l'ha mai considerata una donna. «Era solo una ragazzina, io neppure la guardavo», dice più volte agli inquirenti e il suo noto voyeurismo non l’ha mai coinvolta.

Certo Pierre qualcosa cela, ma è un problema antico che riguarda la coppia, che non ha mai avuto figli e forse proprio per sublimare questa assenza Cléa si è impegnata in un’associazione di volontariato per l’affido di minori emigranti. Insomma tanti elementi alla Simenon che però sono propri anche del cinema di Jacquot, attento alla seduzione femminile (“Tre cuori”, “Eva”, “Gli amori di Suzanna Andler”) al punto da affidare l’inchiesta a un giudice donna, ruolo che nemmeno Simenon poteva ipotizzare quando scrisse il libro nel 1952.

Il lavoro del regista interviene non solo nella descrizione di atmosfere e personaggi, ma anche nel finale, che pur diverso dal romanzo non ne tradisce comunque l’impianto, come peraltro anche le altre innovazioni, all’interno di un più complessivo sguardo da cinema di genere, pur contaminato.

Non tragga in inganno la scritta finale che condanna ogni forma di molestie sessuali di genere: non dipende dal tema del film quanto dalle accuse al regista, denunciato per violenza sessuale da alcune attrici nel 2024. Un distinguo un po’ pilatesco da parte della produzione. (Michele Gottardi)

Voto: 6

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