Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 20 novembre
“40 secondi” bastano per morire: al cinema la storia di Willy Monteiro Duarte. Da Venezia arriva “The Smashing Machine” con Dwayne “The Rock” Johnson. Michel Franco dirige ancora Jessica Chastain in “Dreams”. Il ritorno dei fratelli Dardenne con “Giovani madri”

Vincenzo Alfieri racconta il “prima” di un fatto di cronaca che ha sconvolto l’Italia: la morte del giovane Willy per mano dei gemelli Bianchi. “40 secondi” è un film sporco che sa far male e sceglie una strada stilistica non scontata.
Premiato alla Mostra del Cinema di Venezia come miglior regista, Benny Safdie racconta la storia di un pioniere delle arti marziali miste interpretato da “The Rock” che in “The Smashing Machine” aderisce completamente al suo personaggio. Ma la parabola del lottatore sa un po’ di già visto.
Michel Franco fa un passo indietro. Dopo i barlumi di empatia con “Memory”, il regista messicano torna al suo cinema sommario e schematico con “Dreams”, storia di passione tra una ricca ereditiera americana e un ballerino di Città del Messico, metafora dei rapporti tra i due Paesi.
I fratelli Dardenne restano una garanzia. “Giovani madri” si inserisce perfettamente nel loro cinema non riconciliato anche se non raggiunge più le punte di ruvida analisi sociale toccate con “Rosetta” e “L’enfant”, entrambi Palma d’oro a Cannes.
40 secondi
Regia: Vincenzo Alfieri
Cast: Justin De Vivo, Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Sergio Rubini
Durata: 121’
Willy Monteiro Duarte è morto in meno di un minuto, massacrato di botte dai gemelli Bianchi, due “armi umane” cariche, pronte ad uccidere. Il fatto di cronaca del 2020 indignò l’opinione pubblica ma non ha insegnato nulla se solo qualche settimana fa, a Milano, una gang di ragazzi “per bene” ha pestato a sangue un coetaneo, vantandosi dell’aggressione.
Ora, l’omicidio di Willy, o meglio, il contesto sociale che l’ha provocato, viene portato sul grande schermo da Vincenzo Alfieri nel film “40 secondi”, ispirato all’omonimo libro-inchiesta della giornalista Federica Angeli.
Alfieri non sceglie la soluzione bidimensionale cronachistica ma incrocia i destini e i punti di vista dei ragazzi (tutti con un nome di finzione tranne Willy) che avranno una parte nella tragedia: i gemelli che vivono una quotidiana simbiosi criminale, un loro laido sodale con il suo tirapiedi succube e un’amica di Willy (interpretato dal sorprendente e credibile esordiente Justin De Vivo).
Ne esce il ritratto disarmante di una generazione (ma anche delle loro marce radici che “spiegano” ma non “giustificano”) che Alfieri coglie in implacabili primissimi piani, con inquadrature così strette da non lasciare vie di fuga, come le vite senza orizzonti di questi ragazzi. Solo quando entra in scena Willy (a mezz’ora dalla fine: coraggioso) lo sguardo su di lui sembra avere un altro respiro, più libero o ripreso di nuca come per guardare avanti, a quel futuro che sarebbe stato e che non ci sarà.
Se la matrice periferica non è né nuova né sconvolgente, “40 secondi” sa fare male e si sporca, sbandando solo un po’ nella maniera quando, paradossalmente, cala gli assi (Sergio Rubini e Francesco Di Leva nei panni del padre della ragazza di uno degli assassini e del maresciallo dei carabinieri) o quando aggiunge una digressione troppo scritta nella cucina del ristorante stellato dove lavora Willy. In questo racconto del “prima” c’è tutto il dolore dell’inevitabilità e il dramma dell’impotenza. (Marco Contino)
Voto: 7
***
Dreams
Regia: Michel Franco
Cast: Jessica Chastain, Isaac Hernández, Rupert Friend
Durata: 100’

Dopo la parentesi “intimista” di “Memory”, il regista messicano Michel Franco torna a dirigere Jessica Chastain in “Dreams”. Ma il suo cinema fa un passo indietro per chiudersi nuovamente in una narrazione schematica, a volte ambigua, violenta eppure esangue.
La metafora è scoperta: “Dreams” racconta i sogni (comuni e, allo stesso tempo, opposti) di Jennifer, una ricchissima ereditiera di San Francisco, e di Fernando, un giovane ballerino messicano.
Conosciutisi a Città del Messico, i due si innamorano, travolti da una passione vorace in cui, spesso, Jennifer gioca il ruolo di “baby girl” sottomessa. Quando, però, Fernando, rischiando la vita, raggiunge clandestinamente gli Stati Uniti per vivere alla luce del sole insieme a lei, non varca solo un pericoloso confine fisico. Il lignaggio della donna non può contemplare la relazione con un immigrato: pur sopraffatta dal desiderio per Fernando, Jennifer è disposta a coltivare quell’amore solo lontano dal suo ambiente, in un rovesciamento di ruoli che ha un evidente significato politico e sociale e che rimanda apertamente al rapporto tra Messico e Stati Uniti, tra immigrazione e respingimento.
Se l’uno vorrebbe uscire dalla clandestinità (in tutti i significati possibili), l’altra non può che rientrarvi per salvare censo e immagine, continuando quella relazione solo alle sue condizioni. Quando i messicani, si dice ad un certo punto del film, si limitano a “pulire il culo” agli americani va tutto bene, ma quando provano a porsi sul loro stesso livello, è tutta un’altra storia.
Franco rimane fedele al suo cinema molto sommario, non ai livelli distopici di “Nuevo Orden” o al nichilismo di “Sundown”, ma comunque mai davvero interessato a quello che racconta che sembra spesso solo un veicolo per un cinema a tesi molto superficiale, anche nella estenuante contrapposizione estetica tra il mondo di Jennifer e quello di Fernando.
Sessualmente molto esplicito (sempre per rimarcare, nel gioco di coppia, dinamiche di natura politica), con scatti di violenza improvvisi, “Dreams” non ha più “memoria” di quel barlume di empatia che era, appunto, “Memory” e che sembrava far presagire una nuova fase nel percorso artistico di un autore che, invece, continua a proporre un cinema crudele e sbilanciato. (Marco Contino)
Voto: 5
***
The Smashing Machine
Regia: Benny Safdie
Cast: Emily Blunt, Dwayne Johnson, Oleksandr Usyk, Bas Rutten, Paul Lazenby
Durata: 123’
Durata: 5,5

Leone d’argento per la regia alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, “The Smashing Machine” (letteralmente la macchina che distrugge) racconta la storia di Mark Kerr, dapprima wrestler poi campione di MMA, una nuova disciplina di arti marziali miste, che ha preso piede negli anni Novanta del secolo scorso, uno sport di combattimento che unisce diverse discipline come boxe, wrestling e jiu-jitsu, di cui la UFC (Ultimate Fighting Championship), è l’organizzazione principale.
Tra questi precursori, alcuni sono diventati giustamente famosi, come appunto Mark Kerr, che assieme all’amico Mark Coleman, è stato tra i più importanti interpreti americani. La vita e le avventure di Kerr sono diventate un film, che conta su una star come Dwayne Johnson, detto The Rock, uno dei più famosi wrestler della storia, passato davanti alla macchina da presa, in una prosecuzione della carriera, per ruoli d’azione o in commedie brillanti. “The Smashing Machine” non è un biopic classico, ma analizza le dinamiche che hanno portato Kerr non tanto a vincere, ma a cercare di trovarsi un posto tra gli immortali di uno sport pionieristico, a costo di sacrificare affetti, amori e soprattutto il proprio fisico.
Il film, pur genuino, ha goduto di una certa generosità da parte della giuria di Venezia 82: temi del genere, con eroi dello sport che si perdono e si recuperano sino alla sconfitta definitiva ve ne sono a decine nella storia del cinema. Anche “The Smashing Machine” non si discosta dai cliché del genere, con emozioni individuali che il regista cerca di trasmettere allo spettatore.
Mark Kerr, una montagna d’uomo (categoria pesi massimi) non ha un’altrettanta forza interiore, al punto da lasciarsi andare a oppiacei e altri antidolorifici per poter sopportare i colpi ricevuti che, a differenza del wrestling, sono tutti reali.
Con la sua vita fisica mette in gioco e a repentaglio anche quella sentimentale con la compagna Dwan Staples (Emily Blunt). Il titolo fa riferimento a quella sorta di macchina (auto)distruttiva che è Kerr, che finisce per colpire sé stesso, facendosi del male come al peggior avversario. The Rock, il suo interprete Dwayne Johnson, se possibile ancor più imponente dell’originale, sposa la causa di Kerr e affida al film una sorta di rivalsa artistica: tuttavia anziché fargli cambiar ruolo lo cristallizza ancor di più nella sua vita precedente. Il problema è che il film ricalca in modo patinato e poco originale storie che abbiamo già visto per tanti sport, dalla boxe e dal wrestler al baseball, sino al calcio. (Michele Gottardi)
Voto 5,5
***
Giovani madri
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne Cast: Babette Verbeek, Elsa Houben, Janaina Halloy, Jef Jacobs, Günter Duret
Durata: 104’

Il cinema dei fratelli Dardenne rimane un cinema non riconciliato anche se non raggiunge più le punte di ruvida analisi sociale toccate con “Rosetta” e “L’enfant”, entrambi Palma d’oro a Cannes, rispettivamente nel 1999 e 2005. Senza essere solo cineasti da festival, i Dardenne hanno un’indubbia audience nelle platee più colte e cinéphile, come testimoniano altri premi riportati sulla Croisette, dal “Ragazzo con la bicicletta” (2011, Gran premio speciale della giuria) all’ultimo “Giovani madri” (premio alla sceneggiatura, 2025).
Ciononostante, i loro sono temi genuini e trasversali al mondo occidentale, di qui o di là delle Alpi o della Marna. Come ad esempio quello, ricorrente, della maternità, o paternità, rubata, negata, non voluta. In “Giovani madri” non si arriva al punto del “L’Enfant” dove due giovani ragazzi, divenuti genitori, vendono il loro figlio.
Qui siamo davanti a cinque giovani donne, con o senza compagno, provenienti tutte da contesti disagiati, che si ritrovano incinte senza volerlo, e magari anche senza saperlo e che, senza ombrelli protettivi della famiglia, finiscono ospiti di istituzioni pubbliche sul modello di “casa famiglia”.
Jessica (Babette Verbeek) è incinta e cerca disperatamente di avere un confronto con sua madre Morgane (India Hair), che l’ha abbandonata appena nata. Julie (Elsa Houben) ha avuto la piccola Mia con Dylan (Jef Jacobs), che da tempo ha superato la tossicodipendenza; anche Julie si è disintossicata, ma il pericolo di ricaderci è forte.
Perla (Lucie Laruelle) è fuggita da una madre violenta e spera che Robin (Günter Duret) – appena uscito dal carcere minorile – accetti di fare da padre al loro bambino, Noè. C’è poi Ariane (Janaïna Halloy Fokan), che va a trovare sua madre Nathalie (Christelle Cornil) con la piccola Lili: mentre Nathalie vorrebbe che figlia e nipote si trasferissero a casa sua, Ariane teme che la madre possa cedere di nuovo all’alcolismo e far tornare il vecchio compagno, che ha abusato di lei.
Un universo di grande complessità affettiva che i fratelli belgi delineano con estrema naturalezza, con il consueto metodo di seguire i loro protagonisti, senza invaderne (troppo) la privacy. Qui siamo nei dintorni di Liegi, in una maison maternelle, dove le ragazze sono seguite dai Dardenne restandone un po’ lontani e nascosti, storie individuali che non diventano mai corali, ma che sono comunque modello di tante altre simili. E a differenza di quelle, altrettanto marginali, narrate in passato, “Giovani madri” affida la soluzione delle sorti di alcune di loro a una speranza, un filo sottile che riparte dagli affetti traditi, dal mondo della scuola, dalle istituzioni pubbliche. A riprova che non sempre privato è bello. (Michele Gottardi)
Voto: 7
Riproduzione riservata © il Nord Est








