Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 29 maggio
“La trama fenicia” e le nuove (vecchie) geometrie di Wes Anderson. Mike Leigh torna dietro la macchina da presa con “Scomode verità”. La transessualità rimossa nella Polonia di ieri e di oggi in “Questa sono io” di Malgorzata Szumowska e Michal Englert. Le possessioni demoniache raccontate da David Midell nel film ispirato a una terrificante storia vera: “L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual”, con Al Pacino nei panni di un vecchio frate che ha già visto il Diavolo in faccia.

Wes Anderson fa sempre lo stesso film? Sì o, forse, questa volta, no. “La trama fenicia”, a ben guardare, ha qualcosa di diverso. Timidi segnali di fuga dalle geometrie estenuanti del regista per una spy story con Benicio Del Toro (e il solito stuolo di attori famosi che entrano ed escono dalla porte girevoli del suo eterno set).
“Scomode verità”: Mike Leigh torna ai ritratti familiari, dove segreti e bugie si alternano al deserto affettivo e relazionale dei suoi protagonisti. Scrittura perfetta e direzione compatta.
Presentato in Concorso a Venezia nel 2023, “Questa sono io”, diretto dalla coppia Szumowska/Englert, racconta la difficile transizione di Andrzej in Aniela nella Polonia reazionaria degli anni ’90: più melodramma che film politico di denuncia sociale.
È il caso di esorcismo più documentato del ‘900: l’angoscia che fluisce da “L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual” di David Midell deriva più dall’idea che sia successo davvero che non dalle immagini derivative di un genere ampiamente saccheggiato. Al Pacino è il frate Theophilus Riesinger.
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La trama fenicia
Regia: Wes Anderson
Cast: Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera, Riz Ahmed, Tom Hanks, Scarlett Johansson
Durata: 105’

Impone un certo sforzo cercare uscire dai binari di una critica scontata quando si parla del nuovo film di Wes Anderson. “La trama fenicia”, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, sembra, in effetti, l’ennesima replica del suo cinema geometrico, popolato di personaggi strambi, oggettistica, didascalie, carrelli laterali e plongée, font e dialoghi tra il surreale e il pagliaccesco. E, in effetti, lo è.
Tuttavia, Anderson accenna un timido tentativo di “rivoluzione”. In primo luogo, nella drammaturgia del film che non resta sempre compresso nello stile e, qualche volta, si libra in aria per regalare alcune sequenze inedite (i teatrini in bianco e nero nelle varie esperienze post mortem del protagonista che assestano uno schiaffo piuttosto evidente alla composizione pittorica e allo stile cartoonesco) e anche divertenti (la sfida di basket su tutte).
Naturalmente parliamo di Wes Anderson e, quindi, anche in questo suo nuovo film, ci sono sempre le famiglie disfunzionali, i conflitti e una miriade di personaggi che entrano ed escono dalle porte girevoli del suo set quasi permanente. Però, a cominciare dal protagonista, c’è in fondo qualcosa di diverso.
Zsa-Zsa Korda (Benicio del Toro) potrebbe essere un Mr. Fox in carne e ossa, con quel suo fare canagliesco e seducente allo stesso tempo. È un magnate tanto ricco, quanto manipolatore. E quasi immortale. Dopo l’ennesimo tentativo di sabotare il suo aereo e ucciderlo (anche se, dal suo punto di vista, si sente sempre tranquillo), i suoi nemici (praticamente tutti i governi del mondo) escogitano un piano per far fallire il suo mastodontico progetto di affari in una non ben definita area desertica.
È il momento di cooptare, quale erede in prova, la figlia Liesl (Korda ha altri 9 figli maschi ai quali, però, non intende lasciare nulla) perché gli succeda in caso di morte ma, soprattutto, lo aiuti a sventare la minaccia nemica insieme a un precettore (Michael Cera) appassionato di insetti. Leslie (Mia Threapleton, figlia d’arte: sua madre è Kate Winslet) - che sta per prendere i voti e consacrarsi alla Chiesa - accetta l’incarico, soprattutto per scoprire se sua madre, come dicono, sia stata uccisa da Korda. Comincia un viaggio a tappe che conduce il terzetto alle corti dei vari soci d’affari fino ad una sorta di scontro finale con l’investitore più temuto e importante: il fratellastro di Zsa Zsa, Nubar (Benedict Cumberbatch).
Una resa dei conti che Wes Anderson gira come un muto, che ricorda le invenzioni artigianali di Georges Méliès.
“La trama fenicia” è un film di sabotaggi che, miracolosamente, finisce per boicottare l’ennesimo tentativo di Anderson di replicare se stesso. Certo, l’estetica non muta (ma il problema del suo cinema non è mai stato la messa in scena , quanto, piuttosto, la frustrazione della narrazione romanzesca ingabbiata nelle sue estenuanti simmetrie), ma l’atmosfera da spy story segna una piccola svolta nel percorso artistico di questo regista che presta il fianco ad una visione più cupa (soprattutto nelle citate sequenze in bianco e nero da Giudizio Universale), quasi più sanguinaria, in cui capitalismo e religione, ateismo ed energie anarchico-insurrezionali bucherellano, qua e là, la trama di un film che sembra di aver già visto, con quel plongée sui titoli di testa (ovvero quell’ordinatissima inquadratura dall’alto) che minaccia l’ennesimo pattern ma che, alla fine, è più sorprendente di quanto si creda.
Forse anche Anderson sta scendendo dal suo aereo, forse si sente meno tranquillo di un tempo e, pertanto, più eclettico, meno disposto a vivere di rendita. Finora sono soli timidi segnali di eclettismo. Sperando che “La trama fenicia” lo riporti su quei passi iniziali entusiasmanti in cui la forma era la sublimazione di una drammaturgia potente e intelligente. (Marco Contino)
Voto: 6
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Scomode verità
Regia: Mike Leigh
Cast: Marianne Jean-Baptiste, Michelle Austin, David Webber, Tuwaine Barrett, Ani Nelson
Durata: 97’

Più che scomode, sono dure, come recita il titolo originale, “Hard Truths”. Le verità non sono spesso piacevoli, ma qui sono davvero densamente oscure. Torna Mike Leigh con un film che è pienamente nella scia dei suoi ritratti familiari contemporanei, dove segreti e bugie si alternano al deserto affettivo e relazionale dei suoi protagonisti.
Pansy (la straordinaria Marianne Jean Baptiste) è una casalinga schiacciata dalle sue paure e in conflitto costante con il marito e il figlio e che, dopo la morte della madre, si è rinchiusa sempre più in se stessa, affrontando in modo aggressivo non solo il marito distante e il figlio problematico, ma anche tutti quelli che si trovano ad avvicinarla per qualche casuale motivo. Sarà il confronto con la sorella Chantelle e le sue figlie, più solari e indipendenti, a riaprire vecchie ferite, ma anche a offrirle una possibilità di rinascita.
C’è speranza anche nella difficile esistenza della piccola borghesia inglese. Da sempre attento alla storia passata e a un presente sociale frammentato, Mike Leigh, ormai 82enne allievo di Ken Loach (che ne ha quasi 90), ha esordito alla Settimana della Critica nel 1988 con “Belle speranze” e dopo la Palma d’oro a Cannes con “Segreti e bugie” (1996), ha vinto anche il leone d’oro a Venezia con “Il segreto di Vera Drake” (2004).
Questa volta oggetto delle sue analisi sono alcuni personaggi che sembrano marginali, distrutti dal loro disagio, dai silenzi appartati o dalle cattiverie che esternano con modalità quasi comiche, se non fossero tragiche. In questa intimità desertificata, Pansy cerca di prendere drastiche decisioni ormai tardive e che forse non vuole nemmeno più mettere in pratica, davanti all’assoluta dipendenza degli uomini della sua famiglia, fragili fisicamente quanto psicologicamente.
Una dipendenza che però le permette di far emergere un’umanità, sua e degli altri, tanto negata quanto necessaria.
Il film ha una scrittura perfetta e una direzione compatta, che permette alle attrici (brava anche Michelle Austin nel ruolo di Chantelle) di esprimersi al meglio. (Michele Gottardi)
Voto: 7
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Questa sono io
Regia: Malgorzata Szumowska e Michal Englert
Cast: Malgorzata Hajewska-Krzysztofik, Joanna Kulig, Mateusz Wieclawek
Durata: 132’

Presentato a Venezia 80, la Mostra del Cinema del 2023, col titolo internazionale di “Woman of…” (“Kobieta Z…”), il film ha il pregio di centrare uno degli argomenti più rimossi dal governo e dalla società polacca, la transessualità, in un paese in cui la comunità Lgbtq è molto in difficoltà, senza una legge apposita.
Il film ripercorre, con toni dolci anche se un po’ ingenui, 45 anni di vita di Andrzej, ragazzo polacco che dopo il matrimonio e il primo figlio si accorge di abitare un corpo che non è il suo e inizia la difficile transizione verso Aniela.
È, a suo modo, una storia d’amore verso la propria identità, ma anche verso la famiglia, in cui Aniela non nega il passato, andando verso un altro futuro. La sua è una ricerca della verità declinata attraverso tante storie diverse ed eguali, raccolte nella comunità Lgbtq, dalla protagonista Malgorzata Hajewska-Krzysztofik, che trans non è, e che è stata molto aiutata a capire il personaggio dagli stessi trans.
Il film, che rende omaggio dichiarato sin dal titolo e poi nei temi e nelle atmosfere a un maestro come Andrzej Wajda, porta alla luce le difficoltà della scelta di Aniela in una società reazionaria come quella attuale, in Polonia, dove sono negate anche le cure mediche, ad esempio, per poter fare l’operazione. In questo modo la questione politica mitiga un po’ l’enfasi da denuncia sociale del film, che più spesso assume però i toni del melodramma. (Michele Gottardi)
Voto: 6
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L’esorcismo di Emma Schmidt – The ritual
Regia: David Midell
Cast: Al Pacino, Dan Stevens, Ashley Greene, Abigail Cowen
Durata: 105’

Quello di Emma Schmidt è il caso di esorcismo più documentato del ‘900. Le cronache dell’epoca e gli appunti minuziosi scritti direttamente da padre Joseph Steiger, che prese parte ai rituali, sono stati una enorme fonte di ispirazione tanto da essere raccontati anche in un’edizione del “Time” nel 1936 oltre, ovviamente, ad aver alimentato la cinematografia di genere demoniaco, a cominciare dal film più famoso di tutti i tempi sull’argomento: “L’esorcista” diretto da William Friedkin (e tratto dall’omonimo romanzo di William Peter Blatty).
Il regista David Midell sfrutta, quindi, l’effetto “storia vera” per raccontare quanto successe nel 1928 quando una giovane donna (per la storia “ufficiale”, la vera Emma, all’epoca aveva già 46 anni) fu portata nel convento delle suore francescane di Earling, in Iowa, per essere sottoposta ad un secondo esorcismo (dopo un precedente tentativo di alcuni anni prima) da un anziano frate cappuccino di origini tedesche - Theophilus Riesinger (interpretato da uno sgualcito Al Pacino, con inedito accento teutonico) – e dal parroco del convento Joseph Steiger (Dan Stevens).
Nella finzione, quest’ultimo è un uomo di fede tormentato, già messo a dura prova dal suicidio del fratello. Inizialmente scettico e propenso ad affidare la donna (Abigail Cowen) alle cure dei medici, padre Joseph, insieme ad alcune suore, assiste Riesinger ai molteplici rituali per sconfiggere i demoni che hanno sopraffatto Emma.
Il percorso (quello documentato durò più di tre mesi) è traumatico per tutti: di fronte agli inspiegabili comportamenti della giovane (forza sovraumana, cambiamento delle pupille degli occhi, lievitazioni, lingue straniere parlate perfettamente senza che Emma le avesse mai studiate, urla, piaghe, vomito di strane sostanze e autolesionismo), padre Steiger vacilla, e, con lui, anche Suor Rose (Ashley Greene), mentre l’anziano esorcista, che ha già visto in faccia Satana, tenta in tutti i modi di tenere unito il suo esercito di soldati di Cristo per salvare l’anima di Emma (che, nelle cronache, pare fosse stata posseduta da Giuda e dagli spiriti del padre e della zia che avevano avuto una relazione e avrebbero praticato la stregoneria contro la ragazza).
“L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual”, pur affondando le radici nelle origini di questa pratica, non può che essere, paradossalmente, un film derivativo che nulla aggiunge all’immaginario del filone demoniaco.
In questo senso, anzi, la regia di Midell non indugia troppo sulle situazioni paranormali, cercando (non sempre trovandolo) un altro centro del racconto, ovvero quello legato ai dubbi di padre Joseph e, in generale, alla fragilità della fede e al mistero insondabile del maligno. Più che dalle immagini (di grana pastosa con frequenti inquadrature dal basso verso l’alto come se il punto di vista fosse quello di un serpente strisciante), l’angoscia arriva dal costante pensiero che quegli eventi possano essere realmente accaduti. È la sottilissima linea di confine che separa ragione e superstizione, scienza ed esoterismo, agnosticismo e fede. E ciascuno spettatore può porsi dall’una o dall’altra parte di quella linea.
Varrebbe la pena recuperare il bel documentario di Federica Di Giacomo (Liberami) - che nel 2016 vinse il premio come miglior film della sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia – sulla rinascita della pratica degli esorcismi, più come risposta ultima a problemi e malesseri moderni che come autentico rituale per cacciare Belzebù e affini dall’animo degli uomini. (Marco Contino)
Voto: 5,5
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