Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 28 novembre
Dopo l’Oscar per “Oppenheimer”, Cillian Murphy è il protagonista del coraggioso “Piccole cose come queste”. Colpi di scena nel thriller di Vincenzo Alfieri “Il Corpo” con Giuseppe Battiston e Claudia Gerini. Anthony Hopkins veste di panni del padre della psicanalisi in “Freud – L’ultima analisi”. Claudio Giovannesi dirige James Franco in “Hey Joe”, tra malinconia e redenzione

Dopo l’atomico “Oppenheimer”, Cillian Murphy torna alle più soffuse atmosfere irlandesi diretto da Tim Mielants nel dramma sottovoce “Piccole cose come queste”, sulla tragedia della Case Magdalene, dove migliaia di giovani donne sono state umiliate e abusate in nome di una morale crudele.
Poteva osare di più il thriller di Vicenzo Alfieri: “Il corpo” è quello, scomparso, di Claudia Gerini. Nell’obitorio dove è ambientato il film si gioca una partita a scacchi tra l’ispettore Battiston e un giovane marito accusato di omicidio che nasconde più di qualche segreto.
Ancora un ruolo maestoso per Anthony Hopkins, questa volta nei panni del padre della psicanalisi che, in “Freud – L’ultima analisi” discorre dei massimi sistemi con il futuro scrittore C. S. Lewis. Dirige Matt Brown.
Dopo “Fiore” e “La paranza dei bambini”, Claudio Giovannesi con “Hey Joe” firma una malinconica ballata di redenzione affidandosi alla intensità di James Franco, in viaggio per incontrare e affrontare il proprio passato.
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Piccole cose come queste
Regia: Tim Mielants
Cast: Cillian Murphy, Emily Watson, Eileen Walsh, Michelle Fairley
Durata: 96’

Il tema è noto, anche grazie al cinema. Tra il 1922 e il 1998, 56.000 giovani donne sono state “rieducate” nelle case Magdalene, conventi religiosi irlandesi dove venivano abusate, umiliate e separate dai figli della vergogna dati in adozione.
Peter Mullan, nel 2002, vinse a Venezia un Leone d’oro con “Magdalene”; “Philomena” di Stephen Frears fu un successo di critica e pubblico (4 nomination all’Oscar e miglior sceneggiatura sempre a Venezia). Erano, fondamentalmente, punti di vista femminili: il primo immerso nell’incubo di quei piccoli e cattolicissimi campi di concentramento; il secondo una presa di coscienza a distanza di 50 anni.
Il regista belga Tom Mielants torna su quei temi raccontando la storia dalla parte di un uomo, Billy, un onesto e mite carbonaio interpretato da Cillian Murphy, reduce dal successo e dall’Oscar di Oppenheimer, che Mielants aveva già diretto in una stagione di “Peaky Blinders”.
Nella comunità irlandese del 1985 dove vive e lavora, dominata dal convento retto dalla glaciale madre superiora interpretata da Emily Watson, Billy, orfano di una di quelle madri svergognate, decide di non voltarsi dall’altra parte. Sono “Piccole cose come queste” (che è anche il titolo del film, ispirato all’omonimo libro di Claire Keegan – Einaudi Editore) - una mano tesa per risollevare il corpo e l’anima di una giovanissima donna meno rassegnata delle altre - che, nell’indifferenza e nel disappunto generale (persino della moglie di Billy che pure, con lui, ha avuto 5 figlie che studiano nella scuola separata solo da un muro della Casa Magdalene), risuonano come gesti rivoluzionari.
Billy ha gli occhi tristi, la giacca di pelle lisa, la schiena spaccata dai sacchi di carbone caricati sulle spalle ogni santo giorno e ha tutto da perdere. Eppure, quel Vangelo al contrario (altro che aiutare il prossimo: qui la regola di sopravvivenza è farsi i fatti propri) e quella ragazza che ha il nome di sua madre, non possono lasciarlo indifferente. Perché la polvere di carbone che gli copre la faccia e gli insudicia le mani non arrivi, mai, fino al cuore.
“Piccole cose come queste” è un film sussurrato, di poche parole: dietro si scorge tutta la tradizione anglosassone per le storie della working class, il coraggio di pochi (spesso quelli che, con un soffio di vento, possono essere disarcionati per sempre dalla vita) e la paura di molti, le campagne fredde e nebbiose e un cattolicesimo pingue e repressivo.
Nulla di realmente nuovo, però quello sguardo languido, senza scene madri, resta potente e sovversivo. Così come il gesto finale di aprire la propria casa, tendere una mano: una piccola cosa come questa può cambiare la vita di molti. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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Il corpo
Regia: Vincenzo Alfieri
Cast: Giuseppe Battiston, Claudia Gerini, Andrea Di Luigi
Durata: 116’

“Il corpo” di Vincenzo Alfieri è un thriller ambizioso (anche se è il remake di un film spagnolo) ambientato nella atmosfera allucinata di un obitorio: fuori il diluvio di una lunghissima notte, dentro una partita a scacchi tra un commissario di polizia, il sospettato di un omicidio e un corpo che sembra svanito nel nulla.
È quello di Rebecca Zuin (una perfida e capricciosa Claudia Gerini), imprenditrice farmaceutica ricca e di successo, sposata con Bruno (Andrea Di Luigi: sembra il gemello di Berrettini), un giovane e affascinante assistente universitario precario che, grazie a lei, ma al prezzo di continue umiliazioni, è diventato un top manager dell’azienda.
Quando Rebecca viene trovata morta nella sua splendida villa, Bruno sembra quasi indifferente alla tragedia: l’ispettore capo Cosser (un Giuseppe Battiston sgualcito, antipatico e iracondo, segnato da un lutto che continua a morderlo), lo convoca all’obitorio da dove il corpo della donna è stata sottratto, forse per evitare una scomoda autopsia.
Rebecca è ancora viva e vuole solo inscenare un macabro gioco con il marito oppure, dietro all’omicidio e all’occultamento di cadavere, ci sono, effettivamente, Bruno e la sua amante? E perché certe canzoni e date ritornato in modo ossessivo come indizi di un segreto inconfessabile?
Pur con qualche suggestione affascinenate, grazie soprattutto ad una fotografia che passa dal brutalismo architettonico della villa agli ambienti angosciosi di un obitorio che sembra fuori dal tempo, “Il corpo” cede troppo arrendevolmente alla maniera, come la recitazione dei protagonisti, il loro profilo psicologico senza una autentica profondità e tutti i cliché di un thriller che abbandona quasi subito l’inclinazione onirica (come in “Una pura formalità”: sarebbe stato interessante mantenere quel registro), preferendo restare piombato a terra ma senza prendersi alcun rischio. Però il colpo di scena finale, in fondo, funziona. (Marco Contino)
Voto: 5
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Freud - L'ultima analisi
Regia: Matt Brown
Cast: Anthony Hopkins, Matthew Gode, Liv Lisa Fries
Durata: 108’

“Freud - L'ultima analisi”, diretto da Matt Brown, è ambientato all’inizio della Seconda guerra mondiale, quando Sigmund Freud, interpretato da un sempre magistrale Anthony Hopkins, è giunto quasi alla fine della sua vita: morirà infatti il 23 settembre 1939 per un cancro alla mandibola.
Lo psicanalista decide di incontrare lo scrittore inglese C.S. Lewis (Matthew Goode), autore del ciclo di romanzi "Le cronache di Narnia", ma anche teologo. Un incontro in realtà mai avvenuto, ma che permette al regista di mettere a confronto due personaggi assoluti.
Freud vuole discutere con Lewis riguardo l'esistenza di Dio, analizzando anche il legame che il filosofo ha con la figlia lesbica Anna e la sua compagna Dorothy Burlingham e la relazione non convenzionale di Lewis con la madre del suo migliore amico.
All'interno dello studio di Freud, si snodano quindi tesi e discussioni, mentre fuori sta per scoppiare un conflitto mai immaginato, sequenze che Brown alterna ai flashback degli ultimi mesi nella Vienna dell’Anschluss dalla quale la famiglia Freud riuscì a fuggire in tempo, mentre le sue quattro sorelle finirono deportate dai nazisti.
Il film però è appesantito dalle discussioni, dai dialoghi sempre ricchi, ma teoretici, che faranno la gioia dei cultori della materia e degli studenti del Freud Institute, ma a parte il grande Hopkins che incarna il sunto delle lezioni liceali sul padre della psicanalisi, il film non funziona troppo e si perde in un esercizio di stile e di recitazione. (Michele Gottardi)
Voto: 5,5
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Hey Joe
Regia: Claudio Giovannesi
Cast: James Franco, Francesco Di Napoli, Giulia Ercolini, Aniello Arena
Durata: 117’

Alla fine della seconda guerra mondiale, Dean Berry, un marinaio americano si invaghisce di Lucia, una giovane dei Quartieri Spagnoli, a Napoli. Si amano, lei resta incinta e lui torna oltre Oceano, con la promessa di tornare presto, cosa che non avverrà.
La storia salta al 1971, nel New Jersey: Dean è un veterano della Corea e del Vietnam, sfanga la vita coi sussidi e giocando a Bingo. Come spesso succede, e non solo nei film, gli arriva non si sa bene da chi e come un telegramma del 1958 che annuncia la morte di Lucia e l’esistenza di Enzo, suo figlio.
Inizia così “Hey Joe” di Claudio Giovannesi, in cui James Franco fa la parte del reduce dal cuore buono, ma perdente.
Parte così per l’Italia dove scopre che suo figlio è stato allevato da un boss della camorra e ne è pressoché schiavo. Il regista de “La paranza dei bambini” fa un film un po’ svagato, come il suo protagonista, un loser molto alcolico aiutato da una prostituta dal nome improbabile, Bambi, in veste di Beatrice, che lo conduce nei meandri dei Quartieri Spagnoli e cerca di salvarlo quando si mette nei guai.
Lo scontro – incontro con la realtà di Dean rischia di perderlo definitivamente, ma qui salta fuori un senso di positività del film e del suo autore, e non tanto o non solo nel finale abbastanza sorprendente, quanto nella struttura a incastro di tutto il film.
Ne scaturisce un film delicato nel senso più positivo del termine, in cui Franco fa emergere un personaggio di generosa umanità, celata dagli eventi, che riemerge come nel 1944 al contatto con Napoli e la sua gente. Un apologo, forse, ma ricco di speranza reale verso il Golfo, il rovescio, positivo, della medaglia di “Gomorra” o “La paranza dei bambini”. (Michele Gottardi)
Voto: 6,5
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